Amleto † Die Fortinbrasmaschine allo Spazio X di Caserta
Ha lasciato la sua impronta sulla pietra,
e poi vi è passato sopra
Proverbio lamba, Zambia
L’incandescenza nivea del buio scalfita da qualche luce improvvisa o lenta, in divenire, la silhouette pallida e tornita di Roberto Latini seduto in un angolo, il biancore del cerone che scherma il volto come una lastra di luce, la profonda e nera mandibola del boccascena che divide e attira con la sua ipnosi centripeta: così gira il mondo nel “Amleto † Die Fortinbrasmaschine [versione radio]” allo Spazio X di Caserta a cura del Teatro Civico 14, si presenta come l’esaltazione dell’ossimoro che garantisce la precarietà e la sicurezza, lo spiraleggiare centrifugo di muscoli e tozzi bombardamenti di florilegio di parole.
La prima parola, appunto, è “Amleto”, ma lo si afferma per stemperarlo, per cestinarlo in quanto “recita”. Non è più tempo di “essere Amleto” in scena, o solo in scena?, per questo dilaga lentamente come una gelatina o un virus. “Io non sono Amleto”, le prime parole di Latini, “Non sto al gioco/Non recito più alcun ruolo”. Così, l’attore in scena, smonta la costruzione derubando il pezzo cardine dell’Amleto shakespeariano, cioè, toglie di mezzo dal testo Amleto disarcionandolo dalla carica di “personaggio” per ritrovarselo, tra le mani, come una cavia su cui sperimentare. La morte ha colto Amleto e nella sua storia non c’è più spazio d’azione. C’è, diversamente, da rendergli onore tragico, ma soprattutto è quello il momento in cui si smette la vicenda e inizia la problematizzazione, la macchina, il mito: Amleto diviene l’Amleto, l’indagine conoscitiva può procedere oltre i confini dell’opera e farsi assoluto.
Amleto, chi è costui? Cos’è Amleto?
Immaginiamo insieme la storia di una negazione. Iniziamo con un interrogativo: si può da una negazione per giungere ed affermare un qualcosa? Amleto lo si è sempre guardato, e spesso osteggiato, come l’incarnazione della pietà filiale slabbrata fino al patologico. Non è scellerato, infatti, se lo si è spesso trattato come l’etimo stesso del patologico, la sua trasposizione mondana. Amleto è un discorso (logos) sulla malattia passionale (pathos) che sfocia nella devastante ossessione autodistruttiva. lungo questo sentiero non c’è uno spartitraffico o un bivio che dirami e la storia, in fin dei conti, si arena.
A Latini, però, questa verità banale non è sufficiente. Nell’”Amleto † Die Fortinbrasmaschine” il soggetto amletico viene rivestito, metaforicamente, di un guardinfante – atroce impalcatura a forma di campana che nel corso di svariati secoli ha sostenuto le ampie vesti femminili – che lo rende troppo ingombrante per trovare posto solo nei manuali di nosografia patologica e così rubricarlo a semplice caso da cui evincere una sintomatologia; viene fatto bersaglio di una grande caccia alla sparizione dell’essere e il “To be or not to be” oltrepassa “il problema, la questione, il dilemma”, divenendo, appunto, un’aporia di traslitterazione, di traduzione. Si assiste, così, in scena, alla spoliazione del personaggio del dramma storico, liberandolo dal essere trattato ora da individuo ora da oggetto di dibattito psicanalitico.
Quello che resta è un chi o un cosa?
La risposta – che è Amleto stesso – si lascia attendere, esce fuori dal gioco teatrale e, semplicemente, non recita: semplicemente è, o così dice, così vorrebbe, ma non si tratta di una trasformazione, non c’è nessuna mutazione possibile per l’eroe tragico, c’è la coscienza dell’impossibile: recitare il finito, interpretare l’uomo, nella propria infinita natura di opera d’arte. Ma Latini stoppa subito questo gioco gnoseologico. Attraverso Amleto si va solo, lo dice subito, verso una direzione obbligata, cioè, l’amletico. L’amletico è un’aporia, una porta/varco che ha le fattezze della noesi husserliana. Il Fortinbrasmaschine, opera antologica di Fortebraccio Teatro, ha come pretesto il tradimento “fuori dagli occhi” – fuori da essi però “a cosa guardi?”, chiede Latini – della poetica di Heiner Müller. Il testo originale di Hamletmaschine, da cui prende spunto il lavoro di Latini, datato 1979, ha inizio con un “Ich war Hamlet”, “Io ero Amleto”. Roberto Latini capovolge l’affermazione e la rende al presente, vivida e glaciale come un iceberg che in piena incoscienza ci ha puntato. Ma non c’è modo di sfuggire dall’amletico. “Io non sono Amleto” è un modo molto amletico per non essere Amleto.
Die Hamletmaschine, opera di un grande scrittore di teatro, Heiner Müller, è una riscrittura dell’Amleto, liberamente ispirata ai versi del Bardo. L’opera ha dato un grosso contributo allo sviluppo di un teatro postmoderno capace di reggersi su frammenti enigmatici che sono andati al di là del canone narrativo del suo tempo, rappresentando un immobilismo in cui il testo si riscopre dinamico e inesauribile (in cui è presente, insomma, «il caos del fuoco e la comprensione della fiamma»). Amleto offriva a Müller le lancette da posizionare nel proprio orologio, perché detonasse il classico, l’esemplare, nella propria contemporaneità.
Quella di Roberto Latini e Barbara Weigel, autori del testo, è «scrittura scenica liberamente ispirata a Die Hamletmaschine di Heiner Müller» che si dissolve ben presto in una «deriva» teatrale e metateatrale persa nei mari di questi tempi, ricolmi di abbandonati e sopravvissuti al naufragio. Latini prende a pretesto (prendere ciò che lo anticipa: pre/testo) la drammaturgia di Müller e la passa in un tritacarne semiologicamente affilato per scontornarne il testo in frammenti minimi e disarticolati. Dichiara il regista: “Voglio rimanere il più possibile nell’indefinito, accogliere il movimento interno al testo e portarlo sul ciglio di un finale sospeso tra il senso e l’impossibilità della sua rappresentazione”.
L’aspetto molto interessante del modo di fare teatro di Latini, che è l’aspetto che lo aggancia ad una modalità di fare teatro contemporaneo, è la totale assenza nel suo lavoro di sottotesti psicologici. Quello che ricerca affannosamente è una profonda dimensione dell’individuo, un’orma nitida dell’essere, una descrizione pantografica della condizione umana, non le piccole e miserevoli latenze psicologiche. Non c’è dunque da stupirsi se i personaggi che interpreta in scena sono sempre extra-quotidiani: fantasmi, imperatori folli, sanguinari assassini.
L’andamento di frazionamento per elementi omogenei e aggreganti lo avvicinano molto al lavoro del filosofo-matematico Imre Toth. In un testo uscito in Italia nel 1997, “No!”, Toth fa della filosofia con la colla e forbici scrivendo un libro fatto solo di citazioni. “No!” è un palinsesto di parole e immagini di cinquecento pagine che rompe con ogni sistematicità e crea un flusso di testi tratti da Husserl, Tristan Tzara, Orwell, Cantor, Gauss, Tommaso d’Aquino e da tanti altri, alcuni anche inventati dall’autore.
Sulla traccia segnata da Toth, molto probabilmente inconsapevole, si muove la testualità di “Amleto † Die Fortinbrasmaschine” per diffondere un concatenarsi di contaminazioni e co-incidenze culturali e politiche che segnano una svolta essenziale nella ricerca entelechiana del teatro di Latini. Mescolando con prontezza («readiness is all», dopotutto) una selezione di scritti variegata e visionaria (Dichiarazione dei diritti umani, Eduardo De Filippo, Marylin Monroe, Blade Runner, Ulisse di Joyce e altri), Latini fa riecheggiare le parole eterne del diseredato di Danimarca in contesti sospesi tra il postmoderno e l’assurdo, confermando l’idea mülleriana secondo la quale «le mie parole non dicono più niente. I miei pensieri succhiano sangue alle immagini. Il mio dramma non si terrà più», e al tempo stesso rifiutandola. Basti pensare alla geniale catarsi di un’Ofelia morente che, seppur negata per l’amore, apre il proprio cuore a un flusso di coscienza che si collega direttamente con quello di una Molly Bloom estatica sotto le mura di Gibraltar che parla, dà fiato, dà vita col cuore che batte come impazzito e sì dice sì voglio sì.
Latini è un fantasma in scena travestito da elegante e solenne interprete di kabuki. Nel prologo riprende alcuni importanti elementi di questa forma di teatro giapponese restituendo la magia di un’arte priva di tempo ma densissima di quella crudeltà artaudiana che lo lega al magma di un teatro vitalistico.
Già dal nome dello spettacolo – Amleto † Die Fortinbrasmaschine – vengono seminate tracce per una im-possibile costruzione di senso. Una croce annuncia, dopo la morte di Amleto, la definitiva determinazione di Fortebraccio. Il regista, drammaturgo e interprete, sceglie, infatti, di setacciare il suo dramma attraverso lo sguardo di Fortebraccio, contraltare del principe di Danimarca: anche lui orfano di padre, anche lui erede al trono, eppure privo di quella paralisi fattiva che assedia il principe e che sarà la causa delle sue sciagure. “L’Amleto è una tragedia di orfani”, spiega Latini, “protagonisti e antagonisti di un tempo in cui i padri vengono a mancare. Anche “Die Hamletmaschine”, ormai, da figlio è diventato padre. Questo ha a che fare con la nostra generazione, da Pasolini in poi, con la distanza che misura condizione e divenire, con il vuoto e la sua stessa sensazione. Siamo Fortebraccio, figlio, straniero, estraneo e sopravvissuto e arrivando in scena quando il resto è silenzio”. Partendo da questo doppio, allora, Latini intesse un filo narrativo che si interroga su ciò che viene dopo il silenzio della morte: «Where is this sight?».«Potremmo tradurlo come «dov’è questo spettacolo?», afferma Roberto Latini, «ma anche come: dov’è questa visione? o dove devo guardare per vedere quello che devo
vedere?». Heiner Müller, nel 1986, rispondeva così: “Ciò che è morto, non è morto nella storia. Una funzione del dramma è l’evocazione dei morti – il dialogo con i morti non deve interrompersi fino a che non ci consegnano la parte di futuro che è stata sepolta con loro”. E ancora, nel testo del suo Die Hamletmaschine: “Rompo la mia carne sigillata. Voglio abitare nelle mie vene, nel midollo delle mie ossa, nel labirinto del mio cranio. Mi ritiro nelle mie viscere. Prendo posto nella mia merda. Da qualche parte ci sono corpi fatti a pezzi perché io possa stare nella mia merda. Da qualche parte ci sono corpi dilaniati perché io possa starmene solo col mio sangue. I miei pensieri sono ferite nel cervello. Il mio cervello è una cicatrice. Voglio essere una macchina. Braccia per afferrare gambe per camminare nessun dolore nessun pensiero”.
Un altro elemento presento nella grafia del titolo è la croce. La croce, segno di morte e resurrezione, è presente in ogni elemento scenico, a partire dalla disposizione dei microfoni, doppiamente collocati e verticalizzati e posizionati in orizzontale, per arrivare a un’altra e inconsueta disposizione, data dalla distribuzione della voce, attuata dalla phonè – vera e propria dialettica del pensiero poetico, giocata seriamente – del generosissimo Roberto Latini.
In conclusione, dunque, la Die Fortinbrasmaschine, per la compagnia che da Fortebraccio prende nome, prende le fattezze di un’offerta, la resa di un’eccedenza, ossia quanto – fuoriuscito dall’opera di Müller – sa dotarsi di strumenti per scandagliare i propri abissi.
Come dice il compianto Vittorio Sermonti nel suo ultimo romanzo, “Se avessero”: “Comunque, la apparizione definitiva del teatro, quella che non ti fa più tornare indietro e far finta di niente fu proprio Shakespeare… Facendo un po’ lo scemo, oggi ancora mi domando: non sarà che con i tempi che corrono, meglio sarebbe – dato che metterlo in scena è inevitabile – metterlo in scena da soli, in piedi, col colletto sbottonato, leggendo tutte le parti con la proprio unica voce?”
Ed è quello che fa Roberto Latini.
Amleto † Die Fortinbrasmaschine
di e con Roberto Latini
musiche e suoni Gianluca Misiti
luci e tecnica Max Mugnai
drammaturgia Roberto Latini Barbara Weigel
regia Roberto Latini
movimenti di scena Marco Mencacci
organizzazione Nicole Arbelli
foto Fabio Lovino
produzione Fortebraccio Teatro