Sono in giardino a godermi la breve tregua serale dal caldo, non è un’abitudine fermarmi con calma ad ascoltare il silenzio ma sarebbe bello se lo diventasse. Sarebbe ancora meglio se riuscissi a sostituire ciò che rende difficile e pesante la mia vita con qualcosa di più leggero, più “vivibile”. Sarei da subito disposto a cambiare per avere giornate meno faticose, abbandonare la mia “confort zone” per qualcosa che mi facesse sentire in pace con quello che mi circonda ma poi accade il contrario. Non so proprio come sia possibile ma faccio sempre le stesse scelte, i soliti errori.
Si chiamano “schemi maladattivi“, sono delle routine comportamentali che ci accompagnano dall’infanzia e vengono mantenute in quanto rappresentano il conosciuto, il familiare da cui non ci si vuole distaccare anche se nocivo. Un tema pervasivo che comprende ricordi, emozioni e cognizioni relative al Sé e alle relazioni con gli altri. Tali schemi, come dicevo, insorgono durante l’infanzia o l’adolescenza e vengono elaborati nel corso della vita. Per questo motivo siamo attratti dalle “solite” situazioni o errori che siano, perché ci danno conforto, perché in esse ci sentiamo al sicuro, la nostra piccola “confort zone” rendendo però difficile non solo il cambiamento ma anche il riconoscimento della loro disfunzionalità.
Perché è facile caderci? Per il bisogno d’accettazione e perché siamo troppo insicuri per vivere senza ristretti limiti che favoriscano l’emergere dell’auto-controllo: così alimentiamo stratagemmi di vita personali e non riusciamo a cambiare e non riusciamo seguire una dieta, a fare attività fisica, a prenderci del tempo per noi; così alimentiamo anche stratagemmi di vita sociale, tanto di moda da qualche decennio: il “presente” vissuto all’estremo e “l’io” come unico senso di vita. Ma il “qui e ora” è risultato essere un terribile inganno, una strutturale assenza di lungimiranza che ci costringe a focalizzare i nostri occhi sui bisogni immediati come se fossimo predatori o peggio prede in pericolo, uno sguardo superficiale che non sa più estendersi in profondità, nel passato o nel futuro.
L’io, quello della solitudine globale, che non invecchia e quindi non cresce, un artificio in cui tendiamo a chiuderci per tenerci lontani dalla realtà, una “confort zone” che ci fa precipitare nel nulla, in una “notte in cui tutte le vacche sono nere” come diceva Hegel. L’io che ci vorrebbe sempre uguali e non fa nulla per lasciar traccia, l’Io che si confronta di continuo con le aspettative, col peso di un tribunale permanente che interiorizza giudizi e non accetta confronti.
Un errore di prospettiva che l’essere umano commette verso se stesso diventando vittima del narcisismo, dell’egocentrismo, dell’attimo in cui vive, in questo suo perenne, ossessionato sforzo di autodifesa che lo rende prigioniero del tempo, della sua immagine, e quindi dell’infelicità. E se è vero che non si può sfuggire dal Sè e dalla propria storia (cito Socrate), è vero pure che “si può migliorare la propria vita” (Diotima, Simposio di Platone). Per farlo ci vuole fantasia, determinazione, ci vogliono sorrisi e buona compagnia, giornate buone, magari qualcuno che ti sappia guidare, ci vuole sguardo alto e fiero, a volte lunghi abbracci, “cose d’amore” oppure da amare.
Carmine Liccardi
Foto di Letizia Pietrarossi (alias letyeterea_art )