Preannunciando il disastro ambientale e il prosciugamento delle risorse vitali del pianeta, il cinema di animazione del maestro giapponese regala spunti preziosi sullo scontro (a cui assistiamo tutti i giorni) che, nell’intento di creare un mondo totalmente “a misura d’uomo” crea invece un pianeta inospitale, minando le basilari condizioni di abitabilità e sopravvivenza dell’uomo stesso. Il quesito profondo di Nausicaa della Valle del Vento: la natura è diventata tossica o l’uomo si è reso allergico alla propria stessa vita?
C’è una regola non detta che fa associare al nostro cervello la parola “film d’animazione” a immagini leggere, divertenti e inoffensive, adatte solo a cuccioli d’uomo, adulti nostalgici o nerd convinti. Ma l’ovvio esiste per essere smentito, e abbondano i film di animazione di grande profondità, in grado di andare al cuore di cruciali tematiche della natura, dell’essere umano e del nostro “stare al mondo”. Tra il 1984 e il 1997, a poco più di un decennio di distanza, il maestro giapponese Hayao Miyazaki ha firmato due capolavori che lanciano l’allarme sul prosciugamento delle risorse vitali del pianeta, sullo scontro insensato e unilaterale della nostra specie con la natura (a cui assistiamo tutti i giorni, in verità) che, nell’intento di creare un mondo totalmente “a misura d’uomo”, crea invece un pianeta inospitale, minando le basilari condizioni di abitabilità e sopravvivenza dell’uomo stesso.
Nel primo, “Nausicaa della valle del vento”, due regni sopravvissuti a un’esplosione termonucleare uniscono le forze per attaccare l’immensa giungla che ricopre gran parte del pianeta, ignorando le potenzialità di convivenza, in un gioco al massacro dove basterebbe comprendere che la giungla stessa rappresenta un pericolo solo se attaccata. Nel secondo, “Principessa Mononoke”, l’uomo profana la natura per ottenere l’immortalità rappresentata da un Dio che deve essere ucciso, nonostante sia l’effettivo portatore dell’equilibrio del pianeta; un aspetto fondamentale della vita che sembra non interessare al popolo, manovrato dal potere di un imperatore che non si vede mai nel film, e che forse neanche esiste. A differenza di “Nausicaa”, ambientato in un nostro distopico e possibilissimo futuro, in “Mononoke” Miyazaki prova a tornare all’origine primordiale del conflitto uomo-natura, in un’età remota risalente ad almeno cinque secoli fa.
Apre la pellicola l’immagine di un violento spirito-cinghiale senza senno e colmo di rancore: colpito a morte dall’uomo e penetrato dal marciume interiore subumano, l’animale assume fattezze putride e melmose, che fanno pensare ai liquami tossici sversati dall’uomo nella terra e nei corsi d’acqua. Il cinghiale diventa suo malgrado un mostro senza controllo pericolosissimo per l’uomo, un “dio maligno”, un’animale senza più anima. Non ha scelta. La sua furia cieca e demoniaca, la sua vendetta orrida e putrefatta verso gli uomini è al contempo l’ultimo affronto che è costretto a subire nella sua stessa carne e nelle sue stesse cellule degradate, rese quasi tangibili attraverso l’immagine estremamente tenebrosa della carne in decomposizione. Una decomposizione viscida e verminosa che, per una sorta di magia nera (o piuttosto per l’ennesimo effetto collaterale della tecnica umana), avviene già in vita, prefigurando una frontiera mediana dal sapore zombie.
Il pensiero va alla storia vera di un maiale sottratto all’allevamento intensivo da un movimento di lotta per la liberazione degli animali. Scampato all’industria delle torture e alla grande distribuzione di morte organizzata, il maiale sopravvissuto diventò abnorme e malato, con una serie di problemi articolari e sviluppo di tumori per tutto il corpo. Programmato per morire, non era più adatto alla vita. Una forma di vita manipolata e sfigurata, terribilmente triste, nociva anche per i più superficiali consumatori di piatti a base di carne, farmaci e indicibili sofferenze psicofisiche (e sappiamo anche l’enorme contributo dato dagli allevamenti intensivi alla diffusione dei coronavirus). Se il cinghiale di Myazaki uccide con la sua furia scomposta, il maiale usaegetta ammala con la scomposizione intestinale.
Al contrario, la “giungla tossica” di Myazaki ha una forma solo apparentemente ostile. Anch’essa diventa un vero pericolo dopo che l’uomo ha colpito al cuore la natura, così come il Dio-Cervo di “Principessa Mononoke” devasta tutto senza distinzioni dopo esser stato decapitato: supplizio che accetta peraltro con inattaccabile serenità espressiva, nonostante sia circondato da rabbia e rancore. La vera, profonda inclusività della natura non si limita certo al politically correct, e sembra integrare persino la devastazione. E’ l’uomo che dis-integra, mettendo in pericolo la propria stessa integrità. L’uomo ha sovvertito la propria visione dal momento in cui ha concepito la natura come un qualcosa di “altro” cui contrapporsi per ritagliare un proprio astratto spazio esclusivo e una propria monca identità, confondendola con la strada per l’evoluzione e l’accrescimento di complessità (ma la vera complessità sta nella profonda e infinta interdipendenza degli elementi e delle creature viventi, non nella parcellizzazione analitica del cosmo in una giungla di atomi isolati, buoni solo a giocare con lo smartphone).
Contro la tecnocrazia assassina (pre o postmoderna) la principessa Mononoke è una tempesta rabbiosa, crescente e impetuosa, una donna lupa disposta a versare sangue per difendere la vita. Nausicaa è un baluardo di autorità e purezza inattaccabili, intenta a scoprire il segreto del mondo per ricomporre lo scisma tra umanità e natura. Per capire se la giungla è diventata tossica o l’umanità si è resa allergica alla propria stessa vita, distruggendo i propri polmoni. E, certo, di queste principesse ne servirebbero tante, in un mondo di re senza princìpi.
Claudio Russo, Alessandro Paolo Lombardo