L’appello dell’International Land Coalition dal Sannio: «Lo spopolamento lascia spazio a land-grabbing e investimenti su larga scala, ma il futuro è rurale». Ecco perché lasciare la propria terra non è una buona strategia a lungo termine: una riflessione su territori e comunità locali
Un mesetto fa in un piccolo comune del Sannio è approdata l’International Land Coalition, organizzazione riconducibile al Fondo per lo sviluppo dell’agricoltura (Ifad) dell’Onu. Trait d’union tra l’entroterra campano e la rete globale è la giovane cooperativa sannita “Lentamente”, ovvero una delle 200 associazioni di 70 paesi coinvolti dal network. Ha spiegato Donato De Marco, animatore della cooperativa, che l’idea del forum in terra sannita è nata da un precedente confronto in Indonesia e dal desiderio di condividere con gli altri membri dell’area Emena (Europa, Medio Oriente e Nord Africa) le pratiche messe in atto nel Sannio sotto l’insegna dei “Piccoli Comuni del Welcome” lanciati dalla Caritas di Benevento. Tema dell’incontro: “The rural future”.
Puntuali e potenti le parole della coordinatrice di ILC Annalisa Mauro, intervenuta al meeting presso il Comune di Torrecuso: «L’Onu ha appena lanciato il Decennio internazionale dell’agricoltura familiare, un tema che appare antico ma che è estremamente scottante e attuale: le produzioni di massa, altamente meccanizzate e tecnificate, riducono i posti lavori, laddove le coltivazioni familiari assorbono manodopera e possono svolgere funzioni vitali per i territori». A patto che, aggiunge Mauro, «si restituisca al lavoro nei campi (sottopagato e spesso orientato unicamente all’ottenimento di sussidi) la giusta dignità e un ruolo centrale nella tutela ambientale e nel controllo del territorio». Una condizione senza la quale le zone rurali sarebbero destinate a diventare terre di conquista e a spopolarsi. «E lo spopolamento – ha spiegato la coordinatrice – lascia lo spazio libero a investimenti esterni di grande scala».
Non si tratta solo di melanzane: «la terra è fondamentale per tutto, dall’estrazione di minerali alla produzione di energia, dalla coltivazione al turismo, e il cosiddetto “land grabbing”, ovvero il suo accaparramento, è un fenomeno geopolitico già avviato su scala globale. Anche perché comincia a essere chiaro quasi a tutti che la terra è una risorsa limitata». Lasciarsi la propria terra alle spalle può non essere, dunque, una buona strategia a medio e lungo termine, per nessuno. «Esistono – spiega infine la coordinatrice di Ilc – mappature dettagliatissime che indicano dove la terra è disponibile e inutilizzata. Chi la vuole oggi se la prende, si tratti di consorterie locali o di grosse lobby multinazionali: è un processo in atto che può solo acuirsi, senza comunità forti e chiare priorità politiche».
Osservazioni estremamente acute e consequenziali in cui la parola chiave sembra essere #comunità. Ed è molto interessante il fatto che, per garantire il diritto alla terra e la tutela dell’ambiente a livello globale, l’International Land Coalition punti a mettere le persone al centro della gestione dei territori a livello locale. Sostiene infatti l’organizzazione che una «“people-centred land governance” protegge i diritti delle donne, degli uomini e delle comunità che vivono sulla e della terra, rispettando il fatto che essi dovrebbero essere i decisori finali su come vengono utilizzate la loro terra e le risorse naturali». C’è da capire, certo, se un obiettivo del genere possa essere perseguito da un’organizzazione tanto legata all’Onu (organismo ancora condizionato dai rapporti di forza legati alla Seconda Guerra Mondiale e in cui a fare la parte del leone sono solo pochi potenti) e se, in mancanza di una politica seria e lungimirante che nell’Italia odierna è roba da fantascienza, la frammentazione della governance territoriale non rischi di creare comunità persino più inermi del passato di fronte a eventuali aggressioni fisiche o economiche (secondo l’analista geopolitico Dario Fabbri l’idea di «città-stato o tribù sparse sul territorio» come contraltare di Stati in dissoluzione sarebbe una delle ideologie inventate dall’impero globale americano per infiacchire le sue province-alleate).
Sul piano utopico-propositivo si potrebbe invece arrivare a immaginare che, se di colpo tutte le comunità ricominciassero a prendersi cura dei propri territori, l’ambiente della Terra potrebbe risanarsi nel tempo mediamente occorrente a una comunità per risanare il proprio, dopo averne riconquistato la gestione da gerarchie più o meno complici nello sfruttamento neocolonialista delle risorse naturali. Ad ogni modo, nel suo piccolo, anche l’entroterra campano ha da qualche tempo iniziato a utilizzare la parola chiave del momento. Il borgo irpino di Cairano, ad esempio, ospita un «forno comunitario» e punta a produrre un vino naturale senza corrente elettrica «secondo una precisa strategia di “condivisione con la comunità”». Anche nella città di Benevento c’è un forno comunitario, agli antipodi della progettualità istituzionale di Cairano: l’Ardito Forno Popolare Caserio animato dall’enclave anarchica “Janara Squat”. Nell’area del Medio Calore ci sono comunità di autoproduzione di grani antichi e beni alimentari.
Ma la realtà in fase più avanzata nella promozione della sua idea di comunità è, verrebbe da dire ovviamente, d’ispirazione cattolica, con la classica lungimiranza della forma mentis vaticana (tipica di uno degli stati più longevi e pervasivi del mondo). Tra “Piccoli Comuni del Welcome”, “esercizi di comunità”, “sogni di comunità” e “cooperative di comunità” la progettualità della Caritas di Benevento e dell’annesso consorzio “Sale della Terra” (di cui fa parte “Lentamente”) sembra non avere confini: coinvolge centri sprar, masserie, borghi sociali, alberghi diffusi e una gran mole di volontari, collaboratori, migranti, persone con misure alternative alla detenzione o in condizioni di fragilità psichica. «Più che uova, ortaggi o artigianato noi produciamo coesione sociale», spiegano dal consorzio, riassumendo la loro ricetta per ripopolare il Sannio. L’idea è così ben strutturata da conquistare persino grossi pezzi della laica sinistra, e non solo a livello locale: lo scorso ottobre il comune di Molinara ha ospitato un tête-à-tête tra Fausto Bertinotti e l’arcivescovo Felice Accrocca. «Cristianesimo e socialismo si uniscano contro la riduzione dell’uomo a merce», ha esortato Bertinotti sulla via di Damasco.
Secondo l’ex segretario di Rifondazione Comunista i valori cristiani sarebbero in grado, dunque, di arginare la deriva biocapitalistica. Restano tuttavia alcune questioni da dirimere legate ai valori socialisti. C’è da capire, ad esempio, se una linea di confine troppo sottile tra comunità, volontariato e lavoro salariato riesca a garantire le tradizionali forme di tutela del lavoro. E, soprattutto, se esiste il rischio che un’economia civile e inclusiva, sfruttando le agevolazioni e la forza della rete, possa risultare in parte escludente, erodendo altro terreno a negozianti che non riescono a pagare l’affitto e produttori più “tradizionali” che non fanno parte della #comunità. Sono solo alcuni dei nodi che decreteranno se e in che modi l’idea di nuove comunità può costituire un’occasione veramente positiva per tutti, anziché accelerare lo sfacelo dell’economia locale per come l’abbiamo conosciuta finora.
Alessandro Paolo Lombardo
immagine Rossella Di Micco