Anticamera di una superiore realtà («surrealtà») o laido riflesso dell’esistenza? Ragionamenti sull’onirico dal sogno di Costantino a quello di Jodorowsky
«Se il test di realtà dà esito favorevole si è nel mondo dei sogni. A tal punto il sognatore, pur essendo ancora addormentato, acquisisce l’acutezza dei sensi e la lucidità proprie della vita nel mondo reale» (dalla voce “Onironautica“). Lucidamente immersi nel terreno fittizio e a tratti onirico della scrittura (o della lettura, che ci fa ronzare in testa voci dell’altrove), proviamo a parlare di un’altra realtà immateriale, il sogno.
La piacevole occasione per affrontare l’argomento è la mostra “Onironauti” del cesenate Jacopo Casadei alla galleria vitulanese “GiaMaArt”. «All’origine della pittura di Casadei – scrive il critico Ivan Quaroni nel catalogo – c’è, indubbiamente, il gesto fondativo del Surrealismo, il quale includeva nella rappresentazione la dimensione inafferrabile del sogno e della visione, la sfera ctonia e sotterranea del magma subcosciente.»
Non è che prima del Surrealismo all’uomo sia sfuggito di notare che quella che usualmente chiamiamo vita occupa poco più della metà del nostro tempo. Forse, come al solito nella storia dell’Occidente, un freno alla considerazione adeguata del momento onirico è da rintracciarsi nella confusa condotta della Chiesa. Nel sogno, appannaggio di re, imperatori e santi, si scorgeva spesso lo zampino del diavolo. Era invece un fatto positivo se permetteva un contatto con Dio o spalleggiava improbabili rivendicazioni: si pensi che proprio in sogno i Santi Pietro e Paolo diedero all’Imperatore Costantino l’indirizzo di Papa Silvestro affinché questi lo curasse da un terribile male. L’imperatore, grato, donò alla Chiesa l’Italia e l’Occidente. («Fu la prima rata della più cospicua parcella che sia mai stata pagata da un malato al proprio medico» ha scritto Indro Montanelli).
Incalzato da Dio e dal Demonio, all’uomo rimaneva ben poca libertà nei propri sogni, come nel mondo reale, d’altronde. I surrealisti hanno trovato inammissibile che ci si fosse soffermati così poco «su questa parte importante dell’attività psichica (poiché, almeno dalla nascita dell’uomo fino alla sua morte, il pensiero non presenta alcuna interruzione e la somma dei momenti di (…) sonno non è inferiore alla somma dei momenti di realtà)». La parola surrealtà, troppo spesso ristretta alla sola sfera onirica, indica appunto la necessità di una “realtà superiore” o “assoluta”, derivante dall’unione dei due momenti del sonno e della veglia. In virtù di questa necessità l’arte surrealista non è mai sfociata nell’astrazione pura, nell’informe, tenendo a cuore l’altra metà del cielo, la realtà figurativa del mondo.
Dal punto di vista artistico, grazie alle potenti detonazioni poetiche di certe forme d’associazione prima trascurate e al famoso metodo paranoico-critico lanciato in un secondo momento da Dalì (che puntava a utilizzare in maniera lucida il ricco materiale della paranoia), la portata del Surrealismo è esplosiva, inaugurando un filone fortunatissimo dell’estetica contemporanea. Da un punto di vista scientifico, invece, i surrealisti sono tutt’altro che moderni. Non a caso la diffusione della psicanalisi, avvenuta in genere attraverso ambienti medici, in Francia è legata agli ambienti letterari: «l’inconscio evocato da André Breton che a suo parere fornisce una base teorica, se non scientifica, alla scrittura automatica, alla graforrea, alle alee della macchia d’inchiostro, agli incontri del caso oggettivo, ai cadavres exquis, nel 1920 è un inconscio già arcaico e sorpassato. – nota Jean Clair in “Processo al Surrealismo” – Ha poco a che fare con l’inconscio della topica psicoanalitica di cui tuttavia si fa forte».
Secondo Jean Clair, l’inconscio dei surrealisti si colloca nella tradizione dello spiritualismo romantico, mentre alla base dell’inconscio di Freud ci sarebbe invece il filone razionalista imposto nella filosofia europea da Cartesio. In “Interpretazioni del sogno. Mito, divinazione, psicologia dalle civiltà tradizionali a oggi” Zuleika Fusco nota come l’evento simbolo della frattura nell’onirocritica tra Oriente e Occidente sia legato proprio al filosofo francese: «Cartesio, il 10 novembre 1619, interpreta tre suoi sogni, decodificandone i simboli in relazione alla sua vita in quel momento (…) Il sogno diventò il riflesso della situazione contingente e non la chiave universale di interpretazione della vita».
E’ così che il contrasto con la concezione orientale si fa stridente: in quest’ultima il sogno, non mero riflesso della contingenza ma parte integrante della vita, instaura in seno all’esistenza la dualità di vita e morte. «Per i tibetani l’uomo sogna proprio per abituarsi alla morte e, se sfrutta consapevolmente questa possibilità, sogna per prepararsi a vivere il trapasso in maniera adeguata, guadagnandosi l’opportunità di scegliere la successiva incarnazione» (Fusco). Ma come si può sfruttare consapevolmente la possibilità di sognare? E’ qui che entra in gioco l’onironautica, conosciuta fin dall’antichità e rilanciata nell’ambiente scientifico negli ultimi venti anni dalle ricerche dello psicofisiologista Stephen LaBerge dell’Università di Stanford. Si tratta di un sogno durante il quale si può prendere coscienza di stare sognando, da cui l’espressione sogno lucido. L’onironauta può esplorare e talvolta persino modificare il proprio sogno, entrando in contatto persino con aspetti rimossi della propria personalità.
E’ nel sogno lucido, ad esempio, che il regista Alejandro Jodorowsky (vera autorità del settore) sconfigge il suo incubo: «Allora ho capito che siamo noi ad alimentare le nostre paure. Ciò che ci intimorisce perde qualsiasi potere nel momento in cui smettiamo di combatterlo. È uno degli insegnamenti del sogno lucido. Spesso sono riuscito a dissipare la paura del destino finale attraversando la mia propria morte». Proprio dalla lettura dell’autobiografia di Jodorowsky “La danza della realtà” parte la ricerca di Jacopo Casadei, condotta tutta nell’ambito e con gli strumenti della pittura, sull’onironautica: «Partivo da immagini che ricorrevano nei sogni, cercando di far parlare il colore e far uscire il retroscena del sogno realizzando una sorta di sintesi dell’apparato emotivo della mia esperienza onirica.»
Basta applicare qualche test di realtà (uno dei modi indicati per ottenere la consapevolezza di star sognando) alle opere di Casadei per capire che siamo di fronte ad una rappresentazione dell’onirico: non vi è forza di gravità, spazi indistinti si aprono tra sfrangiati spunti figurativi. «La figura – afferma il critico Ivan Quaroni – è colta nell’attimo del suo farsi, nel momento in cui la forma è potenziale e quindi può diventare mille forme diverse». Pigmenti staminali compongono un feto d’immagine in grado di svilupparsi secondo gli sguardi differenti dei visitatori. Casadei chiarisce: «La pratica di Dalì di tenere il cavalletto ai piedi del letto, svegliarsi e dipingere quello che aveva sognato non ha niente a che fare con il mio procedimento. Il contesto è sempre il sogno ma la mia è una ricerca che si sviluppa nel tempo, con un lungo periodo di incubazione. Nel tempo che corre tra una seduta di pittura e un’altra posso avere discussioni, letture cosicché il ricordo si arricchisce di più suggestioni, schivando la mera trasposizione della visione onirica». E’ nel fare pittorico che Casadei raggiunge il sogno lucido, governando le sue esperienze oniriche con il pennello e una coscienza desta ma permeabile a suggestioni di vario tipo.
Pare che i monaci tibetani utilizzino l’onironautica, o più in generale l’esempio del sogno, per comprendere la natura illusoria di ciò che percepiamo e trasferire questa cognizione alla realtà terrena. Rappresentazione (astratta o meticolosa) di un’illusione, copia della copia degli archetipi celesti (secondo i platonici), l’arte ha meno problemi della realtà ad accettare la sua natura illusoria e può anzi contribuire, scrive ancora Quaroni, ad «affermare l’idea che la realtà possa, e debba, essere il frutto di un’esperienza originale».
Alessandro Paolo Lombardo