25 anni compiuti da poco tra le note balcaniche della “Banda del Bukò”, tammorra alla mano. Emanuele Vicerè non doveva finire sui giornali così. C’era una bella storia da raccontare, quella di due giovani delle colline beneventane che abbandonano gli agi domestici per un vecchio casolare, con il sogno di creare un ecovillaggio. Purtroppo Emanuele lunedì sera ha suonato per l’ultima volta, nella rassegna estiva del comune di San Nazzaro, rincasando subito dopo il concerto in preda a poco sospettabili inquietudini che lo hanno spinto a farla finita.
«Ho sentito che stai cercando terra da coltivare… Quanta te ne serve? – mi chiese – Vieni da me.» Io l’ho conosciuto così, benché le parole che seguono siano la sola primizia che in un anno abbiamo realmente seminato insieme. Assieme alla sua estrema avversione per le stoviglie di plastica ho conosciuto la sua scelta, confrontandola con le mie fantasie di campagna. Emanuele aveva scelto la realtà, molto più dura e infinitamente più ricca degli astratti vagheggiamenti bucolici tanto in voga tra i giovani. Nelle parole del padre, l’ex sindaco di Sant’Angelo a Cupolo Michele Vicerè, «Emanuele era un ragazzo speciale che voleva accollarsi tutti i mali del mondo», con la voglia di cambiare la sua vita senza sottostare alle burocrazie culturali, ai limiti cognitivi di un mondo biocapitalizzato.
«Se la tua esperienza è che il tuo cibo viene dal negozio di alimentari e la tua acqua dal rubinetto, difenderai il “sistema” che ti porta quelle cose – sosteneva, citando l’ambientalista Derrick Jensen – ma se la tua esperienza è che il tuo cibo viene da un terreno e la tua acqua da un ruscello, difenderai a morte quel terreno e quel ruscello.» Da qui prendeva le mosse a San Nicola Manfredi la “Comune dei Triclitritidi” di Jessica ed Emanuele che, come altre esperienze di vita comunitaria ispirate a uno stile di vita sostenibile, puntava a diventare un laboratorio di sperimentazione sociale utile a ripensare la società contemporanea (nonché un laboratorio per la produzione di “castagnette”, strumento della musica popolare nostrana).
Parlando con Emanuele, veniva da pensare che le radici della crisi potrebbero essere disseminate un po’ ovunque, ad esempio in quel terreno reso infecondo poco sotto la sua casetta, nel tempo diventata più accogliente grazie a un intonaco realizzato con acqua, terra, paglia e calce, recuperando una “tecnica antichissima”… «I pesticidi utilizzati in passato – spiegava mestamente – sono scivolati un po’ a valle e in questo fazzoletto di deserto non cresce più nemmeno l’erbaccia». Similmente, i vecchi “pesticidi della modernità” hanno desertificato l’oggi.
Anche per questo Jessica ed Emanuele avevano optato per un “orto sinergico” in cui le colture sono assortite per difendersi a vicenda, promuovendo meccanismi di autofertilità, senza bisogno di aratura, concime e anticrittogamici. «Per il momento riusciamo a produrre solo un 30% di quello che mangiamo, ma siamo solo all’inizio – affermava con ottimismo Emanuele – Inoltre ogni anno un diverso albero da frutto ci ha dato il suo appoggio con insoliti exploit produttivi…»
Come quel ragazzo ottimista, sorridente e brillante abbia potuto abbandonare in maniera tanto drastica i progetti e gli affetti rimane un amaro mistero. L’embrionale ecovillaggio sembra sospeso nel tempo, triste e disanimato da una troncata progettualità. La casa dal sapore etnico, le foglie nel vento, l’orto, il semenzaio, la compostiera che digerisce l’ultimo pasto. Un’eredità che Jessica, il fratello Giampaolo e una “banda” di giovani sono pronti a raccogliere. Il deserto deve retrocedere.
Alessandro Paolo Lombardo