La “Spoon River” napoletanizzata di Enzo Moscato. Il cimitero, con la sua foresta di croci e scritte limite (inizio/fine), è il «luogo eminente» della fiducia tra la vita sfuggita e la terra, in cui il fidarsi è un affidarsi e persino un consegnarsi come unico modo per eternizzare la vita come processo organico entropico al punto che, più ancora del matrimonio, è la vera amicizia tra questi due elementi così concatenati, che pretende una fedeltà eterna, che ne detta un bisogno di collettività anche dopo la morte. Questo bisogno si ripercuote sull’architettura, materiale e culturale, del cimitero che viene ad essere una vera e propria Città dei Morti. Questa città ha bisogno di tutto quello di cui ha bisogno una comunità: di uno Stato, di sue istituzioni, di un “contratto sociale”, di una lingua reciproca.
Che il cimitero sia uno specchio, una riproposizione delle gerarchie e dei tic della società, lo spiegano molto bene gli antropologici ma ancor di più, come un filo spinato che separa la cultura alta da quella popolare, lo ha spiegato il poeta americano Edgar Lee Masters (1868-1950), celebre ormai per un solo libro, l’ Antologia di Spoon River del 1916, che raccoglie gli epitaffi – raccontati in prima persona dai defunti – di un’immaginaria cittadina Usa, simbolo dei borghi di Petersburg e Lewistown, dove il poeta visse e risiedette. Invisa agli accademici, Spoon River è adorata dai lettori e, in Italia, ricordata per la traduzione di una giovanissima Nanda Pivano, che ebbe il libro dall’innamorato Pavese e pagò il lavoro col carcere fascista, quindi per la versione elegante del compianto poeta Antonio Porta e infine per le ballate ubique di Fabrizio De André.
Le voci degli abitanti di Spoon River si rincorrono tra le lapidi della collina che ne ospita le sepolture e raccontano le loro storie – a volte segrete e oscure, spesso disperate –, confessano i loro rimorsi, ricordano i momenti di gioia, si incolpano a vicenda delle disgrazie per cui sono trapassati. Il suonatore Jones, il sindaco A.D. Blood, il folle del paese Frank Drummer: i personaggi che popolano queste pagine mettono in scena, ora e per sempre, il grande teatro della vita e della morte, formando un diorama insuperabile di sentimenti, vizi e passioni.
Cristallizzate in una posa sempiterna, in sospensione tra il desiderio di redenzione e la rassegnazione dei morti, le lapidi battezzate dalla penna di Masters non smettono di scompaginare la tranquillità dei vivi. Mentre con sogni irrequieti dormono, dormono sulla collina. Spoon River è un grande meccanismo letterario di traduzione del mondo dei vivi in quello dei morti. È un processo reciproco che cerca una stasi nell’andirivieni dei giochi linguistici di questa traduzione.
Sulla polisemicità della parola tradurre, transcodifica di codici in altri, Enzo Moscato costruisce il suo spettacolo Raccogliere & Bruciare (Ingresso a Spentaluce) presente alla decima edizione del Napoli Teatro Festival Italia, diretto da Ruggero Cappuccio ed organizzato dalla Fondazione Campania dei Festival presieduta da Luigi Grispello. Moscato chiama questa sua “traduzione”, che inevitabilmente gioca sempre col tradire, “trad’invenzione”. Il neologismo ha in sé i significati di tradurre e tradire: “se si guarda non troppo distrattamente alla proposta scenica contenuta in “Raccogliere & Bruciare” (ennesima mia trad’invenzione di un classico letterario o teatrale universale), è che essa è fatta, qui e là, di assidui e premeditati tradimenti. Per me, infatti, il binomio traduzione-tradimento – anche solo restando nel mero piano della scrittura – non è un optional più o meno arbitrario di chi, per lavoro, verte un idioma in un altro e diverso idioma del pianeta Terra, ma un dovere, oltre che un diritto, che va esercitato senza riserve e senza risparmio, al fine di restituire intatta al lettore (o, nel caso del teatro, allo spettatore) tutta la vivezza e la ricchezza e la complessità e la poli-semanticità, a più livelli, già inviti, ma ancora celati, nel testo ispirato a monte”.
La Antologia di Spoon River “riscritta” da Enzo Moscato vede venti attori in scena, il volto coperto da un velo di polvere, accumulo di esperienze e dolore, zombie di una babelica Neapolis. Un cimitero sulla collina, Partenope, sterminato obitorio sorto dopo una eruzione del Vesuvio. Accanto al bello e all’ironia, c’è una terza categoria estetica che ha trovato un suo sviluppo originale nel pensiero occidentale: il tragico della morte. Com’è noto, esso ha dietro di sé una lunga storia, che si concentra in due momenti principali: quello antico, nel quale l’attenzione è focalizzata sulla forma letteraria che esprime effetti elevati, e quello moderno, che lo considera come il sentimento provato dinanzi a qualcosa di spropositato rispetto alle nostre facoltà sensibili e che costituisce alla nostra incolumità.
Nello spettacolo di Moscato la maestosità e la solennità di questo discorso sulla morte, ricco di rigore protestante, di spirito calvinista, si perde nel crogiuolo di una umanità bassa, abietta, meschina, chiusa nella propria individualità senza rapporto con gli altri, come una classe morta di Kantor, che è chiusa in sé.
Era ormai noto da molti anni che, prima o poi, Enzo Moscato avrebbe portato in scena una “rivisitazione” dell’«Antologia di Spoon River»: lo si sapeva, con l’esattezza, da quando, alla fine del 1995, presentò nelle scuderie di Palazzo Reale quel «Co’Stell’Azioni» che, più di qualsiasi altro suo spettacolo, costituiva un’eclatante metafora o, meglio, un indiscutibile paradigma di Napoli: ovvero di una terra di frontiera su cui s’incontrano e si scontrano, in un groviglio pressoché inestricabile, il calore di un’illustre tradizione, ancora sentita ma ormai impraticabile in termini di quotidianità, e il freddo luccichio delle ordinarie mitologie consumistiche.
Infatti, è proprio in «Co’Stell’Azioni» che si fantasticava che, nella magica notte di fine d’anno, i Morti venissero tra i Vivi: «[…] per farvi» – gli spiegavano – «sapitori ‘e sta ferita, / per chiedervene scusa, / scusa e perdono di una differenza, / dello stare nel diverso di un altrove». Qui si trovano tutte le premesse e le ragioni di «Raccogliere & Bruciare» («Ingresso a Spentaluce»).
Portato in un futuro possibile della terra napoletana ribattezzata “Spentaluce”, dopo l’ultima e fatale eruzione del Vesuvio che ha sterminato quel che rimane degli abitanti dell’antica città “ridotta in cenere e lapilli”, ecco che Moscato costruisce il suo ipogeo delle nostre passioni e dei nostri morti, dei riti e delle memorie, di ricordi seducenti e di vite perse. «Spentaluce è metafora di una città arsa dal vulcano. Io non credo che Napoli sia il paese del sole, da almeno cinquant’anni. Parlo di un punto di vista etico, non geografico». Qui, nel cimitero sotterraneo dove filtra una luce lontana, s’invera l’aldilà di Moscato che confonde i suoi segno con un possibile aldiquà. Confusione di luoghi, di tempi, di temperature come per un labirinto dei ricordi straziante ed esaltante. «[Spentaluce è ] allegoria, quest’ultima, sin troppo trasparente, ma anche, a momenti, contrastante-confondente, di Neapolis-la greca, distrutta da un’ennesima quanto lavica eruzione micidiale del Vesuvio, che è, poi, a ben guardare, il vero e l’unico demiurgo Giove-Pluvio- Ultor, che in bene e in male, da vivi nonché da morti, dittatorialmente, da sempre, ne sovrasta e condiziona gli abitanti». Ebbene, Enzo Moscato è il Demiurgo che plasmando Lingua, Ritmo e materiale poetico, crea materia drammaturgica alla quale dona il soffio vitale con somma maestria.
Ed è con quel parlare ultimo e misterioso che Moscato ha scritto inventando su quel che già era stato inventato, che s’intrecciano le “testimonianze” dei personaggi che affollano lo spazio creato dalle installazioni di Mimmo Paladino cui le luci di Cesare Accetta offrono sussulti improvvisi e disperati. Quasi immobili i personaggi emergono dal buio come presenze forti e disperate, per il loro racconto di rassegnazione, di denuncia, di dispettoso percorso, di vanitosa memoria, di violenza e di tenerezza. S’avanza l’universo di Spentaluce che ognuno con la sua testimonianza ha qualcosa da consegnare ad un presente o futuro che sia.
È questo che fa Moscato prelevando frammenti dalla sua produzione precedente e imprigionandoli per sempre nel momento irripetibile dell’accadere teatrale. «Un’altra metafora; sottende il teatro, che raccoglie i semi dell’autore e li brucia in un olocausto fisico, emotivo, ma effimero proprio com’è il teatro, che muore ogni sera per rinnovarsi in quella successiva e, poi, perdersi definitivamente nell’oblio». E non occorre sottolineare quanto tale operazione si giovi del mélange di lingue (l’inglese del testo originale, il greco antico, un italiano andante, un napoletano gaglioffo, il francese, il portoghese) adottato nella circostanza. Si tratta della «maschera» assolutamente necessaria per passare dalla pagina scritta, in sé conclusa, al perenne divenire di una reinvenzione della vita.
«C’è un momento in cui vengo avanti ed esplicito l’antracht: per noi napoletani l’aldilà è l’aldiqua, ha i connotati del nostro vivere quotidiano. Siamo profondamente pagani, non cerchiamo Enea e la Sibilla per scendere nell’Ade. L’aldilà è a casa nosta. L’inferno siamo noi. Per rappresentare la mia Spoon River ho dovuto inserire questa concezione dell’oltretomba. Ecco perché i miei morti sono vivi in scena. Siamo già morti ora, ma con tutte le esternazioni fisiche dell’essere vivi. Napoli zombie».