Torna stasera il concertone della Notte della Taranta con gli ospiti più vari e meno tradizionali, come il rapper Gué Pequeno secondo cui «il rap è pop come la pizzica». Per fare chiarezza tra suggestioni pop e macerie rituali, riproponiamo una nostra intervista a Mauro Durante, erede dello storico “Canzoniere Grecanico Salentino”
Abbiamo incontrato Mauro Durante durante un vecchio concerto nel Sannio per capire come un gruppo di musica popolare ormai storico affronta la questione: world music, rito o business? Uno dei problemi che riguarda le forme simboliche tradizionali è infatti la loro decontestualizzazione: al di fuori di un coerente apparato simbolico-rituale esse si svuotano di senso.
D. Se il tarantismo già langueva nella Cappella di “Santo Paulo de le tarante” in Galatina, ridotto a “macerie rituali”, cosa può mai restare di tutto ciò sopra e sotto un palcoscenico?
R. Nel libro “Musica e trance” di Gilbert Rouget si parla di «esorcizzare i demoni dei nostri giorni». E’ chiaro che parlare di musica terapeutica estrapolandola da un contesto rituale sociale condiviso è difficile, però un potere terapeutico della musica esiste, non è mai andato perso. La musica popolare, la pizzica, o altre musiche hanno questo potere, quindi qualcuno può “ballare fuori” i propri mali, esorcizzare i propri demoni cambiando contesto. Il tarantismo come è stato studiato e conosciuto è morto ma rimane una musica che era servita per determinati fini e che è da sempre legata ad aspetti rituali, ai cicli della natura… Nei concerti popolari musicisti e pubblico hanno la stessa importanza sennò l’energia non circola, lo spettacolo non funziona. Non è uno spettacolo che si può fruire seduti, magari sonnecchiando, come in un cinema. Ci vuole una partecipazione attiva.
Insomma, secondo te dai frammenti della tradizione, dalle ceneri di un frainteso tarantismo potrebbe nascere un nuovo “rito” degno di questo nome?
Il rito, già dalla parola, è qualcosa che ritorna. La musica popolare ha una funzione, che dev’essere riconosciuta da una collettività: una nuova musica popolare può nascere nell’invenzione del singolo ma poi dev’essere condivisa da un gruppo di perone, che vi si riconosca.
Quindi quanto c’è di rituale e quanto di business al concertone di Melpignano?
Sarebbe divertente se ti dicessi quanto prende un musicista che sale sul palco della Notte della Taranta. Prendendo in considerazione tutto il lavoro, una trentina di giorni di prove più il concertone, il cachet non supererà i 1.500€.
La Notte della Taranta ha guadagnato qualcosa o ha perso qualcosa nella sua storia?
Fin da quando è nata, La Notte della Taranta ha sempre avuto l’idea di riarrangiare il repertorio tradizionale in chiave diversa, anche lontana dalla tradizione, di contaminare. Per questo sono sempre stati chiamati dei maestri concertatori provenienti da altri generi musicali. Forse qualcuno fraintende il punto di partenza, anziché quello di arrivo.
Ernesto De Martino, nella celebre opera “La terra del rimorso” notava come il repertorio musicale dei suonatori terapeuti si fosse assottigliato e indebolito nel tempo tanto che alcuni tarantati reagivano non solo alla musica religiosa ma anche ai brani delle «bande paesane, dei dischi della radio, della televisione, del cinema… a Lazzarella». Noi tarantati moderni a che musica “reagiamo”, che musica balliamo?
Considerato che il tarantismo è morto, il paragone è un po’ difficile. La musica che poteva curare le tarantate in un rituale complesso in cui era coinvolto anche l’elemento cromatico, l’acqua e altri fattori era una musica che doveva essere conosciuta dalla tarantata e riconosciuta nel contesto in cui viveva. Quindi non sorprende che canzoni più vicine ai giorni nostri potessero essere utilizzate qualora venissero riconosciute come musiche “terapeutiche”. Oggi, se ci fossero ancora i presupposti per parlare di tarantismo, potremmo anche avere musiche totalmente inaspettate nella cura del tarantismo.
Quali sono le influenze predominanti del Canzoniere Grecanico Salentino?
Tutto ciò che ascoltiamo può di volta in volta influenzarci quando andiamo a comporre qualcosa di nuovo o a riarrangiare pezzi del passato. Rimanere puri o incontaminati è impossibile nel nostro tempo in cui riceviamo tantissimi input contemporaneamente. Siamo figli del nostro tempo e non possiamo certo fingere di essere dei contadini che suonano dei brani all’interno del contesto in cui erano nati: la musica popolare risponde ad una funzione, a un’esigenza, si pensi ai canti di lavoro o a una serenata fatta per trasmettere un messaggio d’amore. Oggi il fine è quello estetico di un’esibizione sul palco, quindi è importante interpretare anche i brani del repertorio tradizionale secondo la nuova funzione, cioè quella di fare spettacolo. In questo contesto la pizzica ha una dignità artistica pari a quella delle altre musiche di tutto il mondo.
Però c’è una differenza tra “Lazzarella” e una pizzica?
Beh, si, c’è una differenza nel genere, nel contesto in cui si ascolta la musica. Oltre alle differenze oggettive c’è soprattutto una differenza soggettiva.
Ma c’è il rischio che i tarantati moderni non riconoscano queste differenza e siano galvanizzati da una vaga suggestione più che da una forma musicale?
Il rischio c’è nel momento in cui non si vuole approfondire. Altrimenti c’è la possibilità di documentarsi, di capire le differenze, di scoprire il mondo che c’è dietro ogni musica. Dietro i brani di musica popolare, nello specifico, c’è un mondo che non esiste in più o quantomeno che è in parte scomparso ed è difficile da afferrare. Io stesso, nato nel 1984, non capisco del tutto alcuni testi di canzoni che mi trovo ad ascoltare nell’archivio etnico musicologico che ho a casa, dovuto alla ricerca di mio padre. Comprendere un mondo cui non si appartiene è sempre molto difficile.
Hai affermato di voler volgere il potere “esorcistico” della pizzica contro i mali del mondo moderno. Quali sono questi mali?
E’ difficile trovare lavoro, fare progetti a lungo termine, è difficile fare famiglia, sentirsi al posto giusto nel mondo, è difficile provare soddisfazione in un mondo frenetico che ti costringe a correre da una parte all’altra senza pensare a te e al rapporto con le cose che ti sono vicine. Questi mali sono diversi dai mali passati con i quali condividono tuttavia la matrice comune della sofferenza, del disagio esistenziale, di quella che da noi chiamavano “malincunìa”.
L’“avvelenamento simbolico” della nostra società in una parola.
La frenesia.
Ma anche la pizzica è frenetica…
E’ una frenesia controllata, ti lasci andare insieme ad altre persone all’interno di un’onda, di qualcosa che è circolare. Anziché cavalcare un’onda, come nella pizzica, molto spesso ti senti invece solo e schiacciato dai ritmi della frenesia quotidiana della società odierna.
Alessandro Paolo Lombardo
con la collaborazione di Guido Bianchini
Intervista orginale 3.8.2012