La gestione politicomediatica della pandemia sembra improntata a trasparenti principi di terrorismo psicosociale, finanche nella scelta delle parole da utilizzare. Abbiamo chiesto a Sergio Lubello, ordinario di Lingua italiana all’Università di Salerno, se da un punto di vista linguistico è corretto l’utilizzo di un’espressione così escludente e inquietante
«Non parlare, il nemico ti ascolta», si diceva una volta, in un ventennio passato alla storia come dittatura fascista. «Prendevo il treno e regnava il silenzio, stavano tutti zitti», ci ha raccontato con lucidità l’anziano maesto Saverio Gubitosi: l’effetto della propaganda martellante era un senso di paura e isolamento, due parole chiave della gestione distopica dell’emergenza coronavirus. Ma che senso ha parlare di distanziamento sociale anziché di semplici distanze di sicurezza? C’è un fondamento linguistico nell’accanimento di tecnici e politici nell’utilizzo di un’espressione tanto cupa? Lo abbiamo chiesto a Sergio Lubello, docente di Linguistica Italiana all’Università degli Studi di Salerno.
«In effetti “distanziamento sociale” – conferma – ha qualcosa di psicanalitico e anche di regime militare. Sono state fatte varie controproposte e quella che mi pare più neutra è di Francesco Sabatini (presidente onorario dell’Accademia della Crusca, ndr), che ha proposto di limitarsi a parlare di “distanza fisica”, perché di questo si tratta. Quindi né “distanziamento (che implica anche volontà di distanziare) né sociale perché le persone non devono fuggire ma tenersi un po’ lontane. Forse distanza tra le persone sarebbe l’espressione più adatta, più felice e senza implicazioni terroristiche, psicologiste e anche un po’ fasciste».
apl