L’architetto e creativo Riccardo Dalisi ha lasciato ieri il mondo delle forme, di cui è stato un grande mago. Riproponiamo una nostra intervista in collaborazione con l’agenzia di comunicazione e design “Artèteco”
«Mi hanno dato un altro Compasso d’Oro per tutto quello che (non) sto facendo…» Tra giochi di parole e “sciocchezzismo” si svolge la nostra chiacchierata con Riccardo Dalisi, Compasso d’oro alla carriera 2014 (quello per la caffettiera Alessi risale al 1981). La memoria di Dalisi è come il suo studio, stampa tridimensionale della mente che lo ha (dis)ordinato. Sta al visitatore scegliere quale oggetto incontrare, smuovendo ricordi o qualche sfoglia di rame. Lui, il maestro, non ha problemi perché non ha bisogno di cercare: «Sono gli oggetti che trovano me».
Originale architettura dell’imprevedibilità dialogica, la conversazione inizia con la storia di un volgare orinatoio finito nei templi dell’alta società: l’opera “Fountain” di Marcel Duchamp. All’inizio del secolo scorso l’artista francese mostrò l’inconsistenza della nozione di arte ma, ancora vivo il secolo, Duchamp stesso venne fagocitato dal sistema dell’arte. Nella «menzogna generalizzata della vita quotidiana» (Mario Costa), fu possibile ai semiotizzatori mistificare la demistificazione. Il pisciatoio ribattezzato “Fontana” finì probabilmente nella spazzatura, con grande soddisfazione dello stesso artista, ma le versioni successive sono state feticizzate a dovere dal sistema della museificazione mondiale. Ed ecco la nostra prima domanda.
Lei, Dalisi, ha realizzato con artigiani e giovani svantaggiati gioielli il cui valore creativo sovrasta la preziosità del materiale (povero) utilizzato. Non teme che i suoi oggetti, decontestualizzati dall’humus esistenziale di produzione e dal suo messaggio sociale, possano venire trasformati in monumenti al suo valore personale? In oggetti dall’appetito commerciale, feticci mummificati di una storia di emarginazione dell’arte dalla vita?
DALISI: … Va bene. Va bene lo stesso (sorride)… L’orinatoio diventato opera d’arte è stato messo da un riconosciuto artista in un contesto artistico, un museo, attraverso un gesto d’arte. E’ in questa concatenazione di scelte e luoghi che l’oggetto ha potuto trasformarsi. Per cui non è che oggi ogni oggetto è arte e l’arte è finita. Il gesto di Duchamp non esaurisce lo sconfinato mondo creativo. Sarebbe una contraddizione dell’arte stessa, se si esaurisse.
Mi spiego meglio: Lei non teme che il suo messaggio possa essere snaturato? Che per il mondo i suoi gioielli “poveri” siano buoni solo perché li ha fatti Lei, e non perché reclamano la necessità dell’artigianato?
No… Non è che per il timore che qualcosa venga snaturata cerco di non fare snaturare, o non faccio le cose per non farle snaturare. Non esiste proprio. Se è snaturato, è snaturato. E allora si ricomincia da capo. Oppure, se non si ha la forza di ricominciare, non si ricomincia. Ben venga la snaturazione, lo snaturamento, la snaturalizzazione, la… sn… sss…
La snaturalezza.
E poi si torna alla natura e così via… Non se capisce niente.
Grazie al suo ottimismo mettiamo da parte questa preoccupazione e capovolgiamo la domanda. Crede che il suo sistema produttivo, che ha coinvolto una fascia di persone svantaggiate e piccoli artigiani in crisi d’identità, possa essere esteso e funzionare senza il suo nome e il suo impegno personale? Possa diventare un modello concretamente applicabile?
Certamente. Io magari non lo saprò nemmeno, non lo saprò mai. Forse è meglio che non lo so, o forse è meglio che lo so, non lo so (divertita risata). L’artigianato può ritornare ma c’entra la furbizia della vita, perché la vita è estremamente furba e la realtà è più forte di ogni altra cosa. Tutte le cose stanno andando in crisi, non si vendono più le caffettiere perché ci sono le cialde. Io mi posso sforzare di inventare un’altra caffettiera, ma magari andrà in fumo perché quello che sta avvenendo nella realtà è più forte. La realtà… non esiste proprio, la realtà. Esiste un vortice continuo, da tutti i lati, silenzioso… o rumoroso. Noi ci scervelliamo affinché avvenga una cosa: non avverrà, avverranno altre cose. Poi uno fa un piccolo delitto e da quel delitto nasce un fatto importantissimo…
A proposito di questo vortice continuo, mi viene in mente la Sua idea di una “geometria generativa”. Questa sua concezione, come già l’insistenza sulla dimensione artigianale, sembra andare molto indietro, verso quella geometria sacra per cui l’uomo crea lo spazio misurandolo, a somiglianza di un Dio che, per dirla con Platone, “geometrizza sempre”. Lei si sente più un innovatore o un restauratore di qualcosa che è andato perduro nel vortice della modernità?
Io mi sento più uno che cammina all’indietro. Uno col viso in avanti ma che cammina in direzione opposta. Ho visto camminare un bambino così… A tutti i livelli l’uomo, per essere, deve creare. Anche chi misura un campo, definendolo, crea una realtà che non esisteva. Esisteva uno spazio indifferenziato, non il campo. Sulla geometria generativa ho scritto delle cose pensando a una geometria che si muove assecondando una dinamica interna. Non sono riuscito ad andare avanti ma ho fatto un progetto di architettura in merito e dei modelli di generazione di una raggiera, che da un certo punto in poi diventa una scacchiera, e poi una spirale… Un mio amico mi fece notare che tutto ciò esisteva già in natura. I semi, quando si aprono nella terra, generano le radici, che hanno una loro geometria, e poi le foglie che ne hanno un’altra… La geometria generativa va incontro al nucleo della vita.
Il seme conquista lo spazio misurandolo con la sua geometria…
E a proposito di semi e piante, ultimamente sono stato all’Orto della Scuola Medica Salernitana, la prima scuola di medicina d’Europa… Nell’orto c’erano le piante con cui venivano curate le persone nella loro totalità, compensandone gli squilibri. Nella storia ha vinto un’altra linea: isolare il sintomo, affrontarlo e debellarlo, il che è sbagliatissimo perché non esiste il sintomo staccato dall’unità della persona, dalle qualità della persona. La medicina “normale” mi ha prescritto delle iniezioni al ginocchio per vincere l’artrosi e non è servito a niente mentre con l’agopuntura ho risolto, e gli spilli erano belli a vedersi.
Questa parentesi sull’agopuntura rende agevole un breve passaggio all’Oriente: la sua recente esperienza in Cina (v. video).
La Cina vuole assorbire l’esperienza del design europea. E’ una grande nazione a suo tempo all’avanguardia, popolosissima, regolata in maniera piuttosto rigida. Non so cosa verrà fuori da questo connubio. Ci sarà un’assimilazione, chissà se soltanto predatoria o portatrice di nuovi stimoli. Io penso che ci sarà qualcuno stimolato a dare una versione diversa del concetto di design così come l’abbiamo teorizzato e in parte esaurito noi.
La Cina è in crescita, mentre noi dovremmo aspirare alla decrescita. Quale la strada migliore?
Io ho scritto un libro sulla decrescita… (“Decrescita. Architettura della nuova innocenza”, ndr) Tutto quello che facciamo è concepito sull’idea della produzione illimitata, che da un po’ di tempo ha cominciato a dare dei problemi piuttosto grossi. Crescita, crescita, crescita del pil, crescita dell’economia… però si produce tanto scarto da rimanere soffocati. Per rimediare a questa deriva della società verso lo scarto, il sociologo Serge Latouche ha approfondito il concetto di decrescita che io ho orientato all’architettura, in particolare in riferimento alla proporzione tra spazio verde e spazio edificato. Ma mi accorgo che, forse, decrescere per me è diventato un crescere in un altro senso… Vedi questi collage realizzati con carte di caramelle riciclate? Di queste cose qua ne ho fatte parecchie e questo studio sembra un ammasso di immondizia. Ma ha un suo fascino, no?
Grazie, Maestro.
Alessandro Paolo Lombardo