Il 25 Aprile, giornata simbolo della Resistenza e della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, cade quest’anno in mezzo alle polemiche sul “pacifismo” dell’Anpi, in un clima di tensioni e polemiche che vede l’idea di “resistenza” strattonata da una parte e dall’altra in merito alla guerra in Ucraina (netto il “No alle armi” del presidente dell’Anpi, in ossequio all’art. 11 della Costituzione). Potrebbe essere il momento di rileggere Fenoglio riconsiderando l’eroismo della Resistenza e l’antieroismo del lunghissimo day after in cui ci troviamo tutt’oggi
Il 25 aprile non è solo la celebrazione degli eroi che hanno combattuto e ucciso per la patria. E’ anche il silenzio, è il monito, è la guerra che è una troia, come sapeva bene Beppe Fenoglio, di cui tutti hanno letto “Il partigiano Johnny” e pochi “La paga del sabato”. Perché “Il partigiano Johnny” è come il bacio di Hayez: c’è l’amore, c’è l’eroismo, ci sono i grandi valori, i sogni, la guerra che è bella anche se fa male. Ma nella “Paga del sabato” c’è il dopo. Il romanzo che finisce, la quotidianità che ti schiaccia, Ettore che si chiede per cosa cazzo è andato ad ammazzare i nazifascisti, se ci è davvero andato per poi chiudersi «fra quattro mura per le otto migliori ore del giorno, tutti i giorni». Perché una volta finita la guerra una cosa è evidente: la Resistenza è eroica, la pace è banale, e lui nella pace non sa più starci, perciò tanto vale unirsi a una banda di malviventi e andare a far rapine.
«Io non mi trovo in questa vita, e tu lo capisci ma non ci stai. Io non mi trovo in questa vita perché ho fatto la guerra. Ricordatene sempre che io ho fatto la guerra, e la guerra mi ha cambiato, mi ha rotto l’abitudine a questa vita qui. Io lo capivo fin d’allora che non mi sarei poi ritrovato in questa vita qui. E adesso sto tutto il giorno a far niente perché cerco di rifarci l’abitudine, son tutto concentrato lì. Questo è quello che devi capire e invece tu non vuoi capire.»Ettore rivolgendosi alla madre, da La Paga del Sabato di Beppe Fenoglio
Il 25 aprile è una festa un po’ retorica perché l’abbiamo spesso interpretata gramellinianamente solo come la celebrazione del partigiano Johnny, l’eroe romantico che saluta la sua bella e ci libera dal male, dimenticandoci completamente di Ettore, l’antieroe tormentato che non lo sa più che cos’è il bene e cos’è il male. Forse in questo clima di caccia ai filorussi nell’Anpi e divisioni inutili è la volta buona che, a Ettore, gli ridiamo il suo posto dentro il nostro 25 aprile.
Salvatore Setola