Senza l’ecologia non esisterebbe una coscienza “ecologica”, ma la “scienza dell’ambiente” conserva un atteggiamento riduzionista e antropocentrico che degrada la natura a oggetto di conoscenza dell’astuzia razionale umana, con l’ossessione di dover gestire un pianeta altrimenti selvaggio e preservarne le risorse per interesse (benché comune). L’Ecosofia insegna che la natura non è qualcosa che è “lì fuori”, esterna a noi stessi. Non viviamo sulla Terra, ma con ed entro la sua vita
L’ecologia nacque come studio scientifico delle relazioni tra organismo e ambiente e fu definita come tale nell’Ottocento dal biologo, zoologo e filosofo Ernst Haeckel (divulgatore della “Teoria dell’Evoluzione” di Charles Darwin in Germania). Nel corso del Novecento il glossario dell’ecologia si arricchì di termini come biosfera, ecosistema, biodiversità, ecotecnologia, ecososteniblità, impatto ambientale: con la crescita dei movimenti ecologisti e l’aumento degli studi allarmanti sull’inquinamento e sulla distruzione del pianeta, la problematica del riscaldamento globale entrò nell’agenda politica, e nel 1997 fu sottoscritto il protocollo di Kyoto.
Da questo punto di vista, l’ecologia ha sicuramente contribuito al destarsi di una coscienza (appunto) ecologica e a trattare i “sintomi” di un male planetario. Tuttavia essa ha alcuni grandi limiti che ne limitano fortemente le capacità “rigenerative”. Il primo è sicuramente il riduzionismo, cioè l’approccio quantitativo che contraddistingue il metodo scientifico: da una prospettiva riduzionista ogni cosa complessa, ogni totalità non è che «la somma delle sue parti e del loro movimento». Nella spiegazione riduzionista, per usare l’espressione del fisico contemporaneo Steven Weinberg, «le frecce esplicative puntano sempre verso il basso e più comprendiamo l’universo, più esso ci appare privo di senso».
L’ossessione per la misurazione e per il pensiero “esatto” e calcolante, ha portato alla cecità del senso, all’oblio delle domande fondamentali, all’idolatria dei fatti e dello sperimentalismo, alla celebrazione di un universo che assume sempre più i caratteri vuoti e formali dei modelli astratti e matematici, funzionali ed esatti proprio perché privi di ricchezza qualitativa, di profondità e di conoscenza in senso proprio (“Gnosis”). Il risultato è che sappiamo molto, troppo, ma non “Tutto”: la “Sophia” si è dispersa nell’accumulo di informazione e nell’indeterminismo statistico e probabilistico. «Dov’è la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione?», si chiede, per l’appunto, Thomas Stearn Eliot nei “Cori Da La Rocca”.
Nell’ecologia, che contiene la parola “logos”, si cerca un riparo dai danni, un rimedio, ma permane un atteggiamento antropocentrico che continua a considerare la natura un oggetto della conoscenza scientifica da parte dell’astuzia razionale umana, un habitat, una risorsa o cumulo di risorse da sfruttare, anche se “nel miglior modo possibile” , perché possa continuare a darci i suoi frutti. Non si prende minimamente in considerazione, ad esempio, che la Natura stessa in quanto “s-oggetto”, possa risolvere il problema, e non il logos umano o la tecnocrazia: l’ecologia rischia di chiudersi nel catastrofismo o nell’attivismo fine a se stesso.
«È illuminante – ha scritto il filosofo Raimon Panikkar nel suo ultimo saggio “Ecosofia – La Saggezza della Terra” – il fatto che una associazione ecologica molto seria, fondata nel 1982, si chiamasse “Fondazione MacArthur per le Risorse Mondiali”, come se la natura della Terra consistesse soltanto nelle risorse che offre all’uomo. Nel 1984 è uscito un magnifico e utile saggio con il significativo sottotitolo “Atlante per la gestione planetaria”, ancora con l’ossessione baconiana di dover gestire, cioè controllare un pianeta altrimenti selvaggio e inanimato. Le parole hanno un loro potere. Per questo non mi appare sufficiente, per quanto la apprezzi, l’espressione “ecologia profonda” proposta da Warwick Fox e altri. Non è la Terra ad aver bisogno di cure. Siamo noi i malati. Abbiamo bisogno di ecosofia».
Per Panikkar l’ecosofia non è un sistema filosofico, né un movimento culturale, né un’ecologia più raffinata, ma la sapienza “della natura stessa” che è tutt’altro dalla scienza o dalla sapienza “sulla natura”. Grande maestro del dialogo tra Oriente e Occidente, Panikkar ha rilevato che il dilemma prevalente del mondo occidentale è sia il monismo (la riduzione del Tutto a Uno), sia il dualismo (insanabile contrapposizione di Uno e Molteplice), proponendo una visione “a-duale” che è alla base dell’atteggiamento ecosofico, e che afferma: «né Uno, né Molteplice, perché la realtà non sottosta alle esigenze della mente». A posto del concetto di “interdipendenza”, l’Ecosofia propone il concetto di “inter-in-dipendenza” che riconosce in ogni essere il suo grado di libertà e creatività e al tempo stesso non “separa” la vita macro-cosmica e da quella micro-cosmica. Oltre l’oblio della separazione “soggetto/oggetto”, l’Ecosofia propone uno sguardo che è al contempo contemplativo e attivo, “tras-formante”, contro la considerazione antropocentrica di una natura come qualcosa che è “lì fuori”, “esterna” a noi stessi.
La ri-generazione di una “nuova innocenza” può cominciare solo con il “risveglio” delle facoltà biopsichiche, (oggi sempre più atrofizzate dal materialismo), e con la capacità di “ascoltare”, di “osservare” e di “comunicare” con altre dimensioni della realtà, considerate “irreali” dal punto di vista antropocentrico, cioè dalla vita ordinaria, dal senso comune, dal razionalismo e dal pragmatismo. Lo spazio “ecosofico” è un “orizzonte aperto”, che tiene conto dell’esperienza umana nelle sue diverse culture, delle diverse generazioni e tradizioni millenarie, evitando il pericolo dell’unificazione, dei totalitarismi, dei monismi e del mono-culturalismo. Non si tratta di una prospettiva globale, la quale è una contraddizione di termini, poiché nessuna prospettiva in quanto tale può abbracciare la totalità a 360° (“sub specie aeternitatis”) ed esaurire la realtà. L’“oikos” a cui fa riferimento l’ecososofia non è la “terra come pianeta” dell’universo scientificamente inteso né l’“habitat” dell’ecologia ma uno “spazio” non riducibile a quello materialistico, meccanicistico e quantitativo. Non viviamo sulla Terra, ma con ed entro la sua vita. E la realtà non è qualcosa da “cogliere” (v. capire, da “capere”, afferrare) ma qualcosa cui “partecipare”.
Enrico Falbo
Foto di copertina Rossella Di Micco