Rudy Cremonini, in mostra al GiaMaArt Studio di Vitulano, porta una vitale ventata di morte nel Sannio
Il colore utilizzato da Rudy Cremonini è come il tempo. Distrugge nel momento stesso in cui crea. Volti leggibili ma smangiati, con ricadute d’ombra che segnano il ricadere del morto-vivo nella sua dimensione oscura, la dimenticanza. Il gallerista di Vitulano Gianfranco Matarazzo segue il giovane artista da due anni e finalmente è riuscito a portarlo nel suo paese, presso GiaMaArt studio (sbocciata nell’aprile 2006 come spazio espositivo e centro progettuale e di promozione per la giovane pittura) con la mostra “Documenti d’alterità”.
Rudy Cremonini lavora sui morti. Il che è già una piacevole devianza dacché la nostra sensibilità moderna si formò sul Barocco, sulla spumeggiante sensazione di vita, sulla frenetica vis di un mondo pittorico che per mostrarsi disperatamente vivo (dopo il baratro tragico aperto da Caravaggio) si manifestava come una “pentola in ebollizione”. Rudy, nato a Bologna nel 1981 e lì formatosi all’Accademia delle Belle Arti, utilizza ritratti fotografici di fine Ottocento-inizio Novecento. Li osserva, carpisce ciò che è ancora vitale nei sembianti di persone morte e riporta acrilicamente in vita. Una vita in gradazioni di grigio, per rimarcare una differenza col presente. «V’è un certo discorso di archiviazione» – dice l’artista.
E’ certo che il bianco e nero, nell’epoca del colorismo acceso targato photoshop, conserva istintivamente un valore documentario. Così l’opera di Cremonini può oscillare tra due poli. Il primo, un’antropologia pittorica tesa ad avvicinare, tramite gli sguardi “altri” dal passato, il mondo “altro” che quegli occhi hanno visto («Sto guardando gli occhi che hanno visto l’Imperatore!», pensava Barthes osservando una foto del fratello di Napoleone). “Il dialogo con lo sguardo dell’altro può aspirare ancora ad avere il potere magico di trasformare e di guidare il nostro sguardo sul mondo”, ha scritto Lorenzo Canova nel catalogo della mostra. Rudy conferma: «Il termine preciso è recupero. Ma non intendo recupero di oggetti bensì di vita, di idee. Ed è lo sguardo il medium (impalpabile) di questa trasmissione impalpabile».
L’altro polo è quello mistico-macabro che ha trovato espressione in una precedente mostra di Rudy al museo delle cere anatomiche “Luigi Cattaneo” di Bologna. Le cere anatomiche, nella loro chirurgica somiglianza con la realtà, sottostanno all’agghiacciante fato dell’Iperrealismo: qualsiasi cosa, caricata, portata all’estremo finisce per negare se stessa e diventare il suo opposto. L’illusione estrema di realtà e vita delle cere le porta ad emanare, al contrario, un confuso sentore di morte. Da questo punto di vista, le opere di Rudy agiscono in maniera esattamente opposta: il lavorìo pittorico (artistico e filologico) sulla morte porta i personaggi ritratti ad evocare un pastoso sentimento di vita, seppur remota.
“Uomini e donne affiorano difatti a ritroso dallo scorrere del divenire attraverso la vibrazione di una pittura che redime la loro scomparsa anche grazie a una dimensione installativa in cui quegli sguardi rielaborati dall’occhio e dalla mano dell’artista trovano una nuova e concreta dimensione all’interno delle sale museali” (scrive ancora Lorenzo Canova).
Nel nostro mondo iperreale e derealizzato, chiediamo alla morte di insegnarci cos’è la vita. E’ una lezione utile, anche in terra sannita.
Alessandro Paolo Lombardo