Volevo trascorrere un tempo diverso, qualitativamente differente, rispetto alle abituali domeniche estive, non cercavo nessun colpo di scena, nessuna accelerazione emotiva, anzi, volevo che il tempo defluisse ancora più lento e che gli attimi si mischiassero allo scorrere del fiume, ai profumi all’aria aperta e alle immagini di architetture millenarie stagliate nei campi alberati, pensando di farmi accompagnare da una esperienza ancor più lenta e interiore come la lettura di un libro, en plein air, direbbero in questo caso gli impressionisti francesi.
Alle tre del pomeriggio del venti agosto scorso, con zaino in spalla, plaid, qualche libro e macchinetta fotografica, ero sicuro di trovare ciò che cercavo giù a Ponte Rotto, dove passa l’Appia antica che conduceva in Puglia, e di cui Paolo Rumiz, scrittore e giornalista, nel suo libro Appia del 2016, parla così: “Esistono lettere dell’inizio del Novecento, dove i sindaci già denunciano alla Soprintendenza il disfacimento e il furto continuo di reperti, lapidi funerarie reimpiegate nei piloni in epoca tardoantica. In un altro Paese un monumento così sarebbe segnalato e consolidato, qui no. Pare che il manufatto, trovandosi al confine tra tre Comuni, veda un indecoroso palleggio delle responsabilità sul restauro e la manutenzione […]. Sono italiano, non tedesco o francese, e da italiano soffro come un cane nel vedere il ripudio della memoria di casa mia”. Rumiz si riferisce proprio a Ponte Rotto.
Quando arrivo nel sito, alle tre passate, mi accolgono sparsi un po’ ovunque i segni distintivi dell’inciviltà, adagiati in cumuli di immondizia, buste nere stracolme e carte di ogni genere sparse nell’erba. Probabilmente per molti i concetti di casa, appartenenza, abitare e vivere, restano circoscritti al perimetro della proprietà privata.
Mi avvicino alla sponda del fiume, mi siedo e comincio a leggere, intorno a me ci sono dei ragazzini in bici e due ragazze che prendono il sole. Il fiume Calore è in secca ed emana un odore insopportabile. Verifico se la mia percezione coincide con quella degli altri presenti: “Sì”, mi rispondono, “E non l’avevamo mai sentito così forte”. Vedo sull’acqua, subito dopo la confluenza del fiume con un rigagnolo, una patina biancastra spinta dalla corrente.
Dopo venti minuti di osservazione e scatti desisto, le esalazioni aggrediscono le vie respiratorie e lascio il sito portando con me un mal di testa che durerà per oltre due ore. Durante il ritorno, penso a tutti gli articoli che scrissi per smuovere sindaci e Istituzioni, enti e cittadini; mi rendo conto che, da oltre tre anni a questa parte, le colonne del giornale sono state riempite a vuoto e che nulla di concreto si è mosso. Solo il deterioramento del fiume Calore ha continuato ad avanzare: da che ho memoria, da quando avevo l’età dei ragazzini in bici e frequentavo il Ponte romano,non mi era mai capitato di dover fuggire via. Per la strada del ritorno m’imbatto in una famiglia sopraggiunta per una passeggiata. Mi sale la rabbia e oltre a promettermi di raccontare tutto ciò che ho visto e ho sentito in questo articolo, scelgo di fare qualcosa che non avevo mai fatto prima: denunciare quell’odore innaturale presso la Caserma dei carabinieri di Apice, sporgendo denuncia come singolo cittadino.
Nulla di particolarmente nuovo, visto che è in atto una inchiesta della Procura, prorogata nel giugno scorso ad altri sei mesi, per l’inquinamento dei fiumi Calore e Sabato, in cui i maggiori indiziati sarebbero scarichi non autorizzati sversati nelle acque.
Telefono a Gianluca Aceto, ex assessore all’Ambiente della Provincia di Benevento, attuale consigliere d’opposizione nel Consiglio di Telese Terme, e chiedo un resoconto dell’attività politica volta alla tutela e allo sviluppo dei corsi fluviali sanniti, nonché un commento personale sulla vicenda: è normale quella puzza? “Assolutamente no, non è per nulla normale, non esiste, evidentemente c’è uno scarico non controllato che crea problemi agli equilibri chimici. Ancora oggi, nel 2017 – rileva Gianluca in un misto di amarezza e insofferenza – si pensa che i fiumi siano delle discariche di cui servirsi. Non si considerano i corsi d’acqua come dei corpi vivi e delle risorse economiche; e non tutte le responsabilità, c’è da dire, sono delle amministrazioni. Alcune si sono attivate ma esistono delle lungaggini”.
C’è un piano della Provincia del 2013, a cui ha partecipato Aceto, una proposta di project financig, approvato nuovamente dall’esecutivo Ricci l’anno scorso, denominato progetto “Habitat”, fermo alla Regione Campania in uno stato d’inerzia. “Ad ora è l’unica idea messa in campo – riprende l’ex assessore all’Ambiente – nella quale è previsto l’affidamento ad una serie d’imprese del mantenimento ingegneristico-ambientale delle reti idrografiche, il monitoraggio degli scarichi da parte della Polizia Idraulica, il controllo delle aree da parte del Corpo Forestale dello Stato e il monitoraggio della pulizia ordinaria secondo il rispetto degli equilibri ambientali. C’è un blocco che non riesco a capire e mi fa rabbia, pochi riescano a comprendere le potenzialità lavorative che questo tipo di turismo può esprimere”.
Salgo in macchina e giro in paese alla ricerca di una memoria storica, qualcuno che mi riconsegni un’immagine più rasserenante e dignitosa del fiume. Scorgo il professore Antonio Frusciante, settant’anni, impegnato in una discussione accanto al salone del barbiere Agostino, anche lui Frusciante; a quest’ultimo, nel frattempo, chiedo qualche vecchia foto del fiume, sicuro di trovarla, visto che il negozio sembra un piccolo museo dei ricordi di vecchie foto in bianco e nero.
– “Com’è il fiume oggi rispetto al passato?”
– “Irriconoscibile”, risponde Antonio Frusciante senza mezzi termini, “Pensa che un tempo bevevamo quell’acqua, andavamo con le nostre madri a lavare i panni, imparavamo a nuotare e ci tuffavamo dagli alberi”.
Intorno al fiume avvenivano riti d’iniziazione, prove di coraggio, e c’era un vero e proprio rapporto economico in quanto “con la piena le persone dal borgo scendevano con le ceste per pescare, era una manna dal cielo, e in piazza si allestivano dei banchi per la vendita”. Ma verso la fine degli anni ’70 le cose cominciarono a cambiare. “La portata del fiume iniziò a diminuire”, spiega il professore, “negli anni ’80 ci fu una moria di pesci e in segno di protesta ne presi diversi e li gettai ai piedi della fontana nella piazza del Castello, come dire: “Guardate cosa sta succedendo”.
La conclusione l’affido a Tiziano Terzani: “I fiumi mi han sempre attirato. Il fascino è forse in quel loro continuo passare rimanendo immutati, in quell’andarsene restando, in quel loro essere una sorta di rappresentazione fisica della storia, che è, in quanto passa. I fiumi sono la Storia”.
Michele Intorcia
Pubblicato il 24.08.2017