Il danno ambientale è stato evitato. La petroliera “Xelo”, battente bandiera della Guinea Equatoriale, che sabato scorso era affondata lungo le coste tunisine facendo temere la perdita di greggio, si è rivelata una truffa. La stiva era piena di acqua di mare.
La notizia di sabato scorso secondo cui una petroliera, con un portata di 750 tonnellate di gasolio, si fosse arenata nel Mediterraneo sarebbe una “bufala”. O meglio la nave si è realmente inabissata lungo le coste tunisine ma all’interno della stiva anziché petrolio era piena di acqua di mare. L’evento, comunicato dal capitano della petroliera, aveva subito allertato le autorità locali che si sono immediatamente attivate. L’intervento dei sommozzatori ha rivelato che lo scafo non era danneggiato. Il danno ambientale si è creduto scampato. Solo ispezionando l’interno della nave ci si è potuti accorgere della beffa.
Non il danno ma la beffa!
«I quattro serbatoi sono pieni di acqua di mare» ha dichiarato l’ammiraglio Mezri Letayef, portavoce della Marina Militare tunisina, spiegando che «potrebbe essere che la nave non sia effettivamente attiva nel trasporto di carburanti». Il danno ambientale evitato dalla “beffa”. Il ministero tunisino ha dichiarato in un comunicato che i preparativi avviati per pompare il diesel «cesseranno». Le autorità si occuperanno del traino della petroliera «in una fase successiva».
La nave, secondo alcuni analisti, potrebbe essere coinvolta nel traffico di petrolio libico in quella fascia di Mediterraneo. Teodoro Nguema Obiang Mangue, vicepresidente del paese e figlio del capo di stato, ha scritto su Twitter: «Esistono oltre 300 barche nel mondo che lavorano con la nostra bandiera in modo illegale. La bandiera della Guinea Equatoriale non può essere la faccia di frodi internazionali». Intanto la rete Réseau Tunisie Verte, che riunisce un centinaio di Ong attive nel settore della difesa dell’ambiente, «esprime stupore per il comportamento delle autorità tunisine, che hanno consentito alla petroliera Xelo di entrare nelle acque territoriali tunisine il 4 aprile 2022 per effettuare le necessarie riparazioni nel porto di Sfax, senza verificare l’autenticità dei suoi documenti, nonostante i sospetti che aleggiano intorno ad essa in merito al mancato rispetto delle procedure di sicurezza, visto che la nave è stata sequestrata a più riprese».
Sull’accaduto le autorità tunisine hanno aperto un’indagine e interrogato i 7 componenti dell’equipaggio che farà sicuramente luce sulle ombre di questa vicenda. Intanto, anche se il petrolio non era presente nelle cisterne, resta un relitto sepolto in mare che dovrà essere recuperato. Vicende simili si sono verificate negli anni con un esito non altrettanto positivo. A tale scopo è stato approvato un protocollo di sicurezza internazionale.
Protocollo di sicurezza per scongiurare danno ambientale
Evitato il danno ambientale il problema resta. Infatti per far fronte a pericoli del genere è approvata una convenzione internazionale per la prevenzione dell’inquinamento causato da navi. La convezione MARPOL, questo il suo nome, sottoscritta nel febbraio del 1973 ma entrata in vigore a partire dall’ottobre 1983, conta oggi 160 paesi aderenti (il 98% di tutte le navi attive). Il trattato nasce come strumento per arginare gli sversamenti in mare di idrocarburi e prevenirli preservando i nostri mari. Il protocollo stabilisce alcune norme per evitare la perdita di greggio di una nave petroliera in caso di incidenti, evitando danni ambientali. Una delle misure messe in atto è la costruzione di un doppio scafo che evita, in caso di impatto, la fuoriuscita. Ma le misure agiscono a danno avvenuto. Bisogna cercare una via che permetta di prevenire tali eventi.
Evitare danni ambientali? Intervenire all’origine
Il modo migliore per tenere puliti in nostri mari, salvaguardando l’habitat marino e scongiurando i pericoli di danni ambientali, è quello di ridurre la nostra dipendenza dal petrolio. Guardare a fonti energetiche alternative e ad una politica di riduzione ragionata dei consumi sul lungo periodo. Intervento che ci permetterebbe di abbandonare l’utilizzo di fonti di energia ad alto impatto ambientale (come il petrolio, il carbone o l’energia nucleare) e favorire fonti energetiche rinnovabili e puliti. Fonti energetiche che permetterebbero l’autonomia energetica di molti paesi senza la necessità di doverle esportare da altri paesi.
«I progetti di energia rinnovabile – spiega la Prof.ssa Lučka Kajfež Bogataj, nobel per la pace nel 2007 ed ambasciatrice del progetto Interreg MED COMPOSE – hanno molti benefici: possiamo mitigare i cambiamenti climatici riducendo le emissioni di gas serra, migliorare la qualità dell’aria e ridurre le altre forme di inquinamento. E soprattutto, l’uso di tecnologie rinnovabili porta nuovi posti di lavoro nel settore della green economy. E, ultimo ma non meno importante, ogni Paese o comunità diventa più indipendente dall’energia e meno vulnerabile agli shock geopolitici».
Non è fantasia. Ci basta pensare a come nel 2020, durante il lockdown imposto dai governi per far fronte all’emergenza sanitaria, si sia registrata una riduzione dei consumi di petrolio con un contestuale abbassamento dei livelli di inquinamento e un aumento della qualità dell’aria in 47 città europee, come rivela uno studio internazionale realizzato da diverse istituzioni di ricerca (tra cui ENEA), pubblicato su Nature. La nostra dipendenza dai combustibili fossili è già in riduzione proprio per l’aumentare di tecnologie che ne permettono l’abbandono. «L’età della pietra – continua la Prof.ssa – non è finita perché sono finite le pietre: è finita perché tecnologie più avanzate – come gli strumenti di bronzo – sono state sviluppate per soddisfare le mutevoli esigenze dell’umanità». Il problema è se le nuove tecnologie sono fondate su pratiche ancora più energivore, come sembra presagire l’idea di connettività totale e continua.