Una introduzione al ruolo delle microcomunità nel contesto della crisi globale e della transizione ecologica. La grande operazione di “green washing” (che non metterà in discussione lo sfruttamento intensivo del pianeta) e l’annunciata “stagione delle pandemie” rendono urgente un ripensamento delle modalità di abitare e “resistere” ai mali naturali e artificiali che l’uomo sta generando
Great Reset. Great Divide o, più positivamente, Grande Bivio. “Nulla sarà più come prima”… Quante volte abbiamo sentito o letto espressioni del genere durante questi (infiniti) mesi di alternanza tra lockdown e semi-libertà? Siamo stati confinati in uno spazio ed un tempo distopici in cui davvero niente è più come prima, ma nei quali l’anelito segreto (nostro) è di tornare a vivere esattamente come prima. O, magari, meglio di prima, in maniera diversa… Ma diversa come?
Diciamocelo chiaramente: i nostri cari governanti hanno un’idea ben precisa rispetto al dove vorrebbero condurci e ce la stanno mettendo tutta a farcela capire. Al di là delle promesse di prossime chiusure o future condizioni di simil-libertà elargite (o imposte, a seconda della prospettiva) a suon di “certificati verdi” (ma perché verdi, poi, se hanno a che vedere con virus e vaccinazioni?), i piani politici a breve e medio termine sono ben chiari. I progetti economici di “recupero” (recovery fund, recovery plan, NextGenerationEU) che impegneranno (o inginocchieranno?) l’Italia per i prossimi decenni prevedono che la maggior parte degli investimenti siano da spartire tra “rivoluzione verde, transizione ecologica” (ex “green deal”, per gli amanti degli inglesismi) e digitalizzazione (leggi implementazione del controverso 5G). Insomma, una strada più che definita. Per parafrasare un noto comico italiano, “comunque andrà sarà un successo” ma, con tutta probabilità, non per noi comuni cittadini…
Al di là degli orientamenti politici e della strumentale propaganda dei media asserviti, al di là dei tentativi talvolta ingenui di personaggi famosi di proporre l’emergenza come un trampolino per un possibile salto “quantico” (benedetto Fritjof Capra!, ormai questo termine lo si usa anche per la frittura), questo periodo di così profonda crisi sanitaria, economica, sociale, politica ed umana può essere effettivamente trasformato in un momento di seria riflessione.
L’uomo, cancro della Terra
È chiaro, ormai: siamo il cancro della Terra! Siamo causa di inquinamento, danni ambientali, cambiamenti climatici (quale che sia il nostro effettivo contributo in merito, certamente non nullo), carestie e inondazioni, sovrasfruttamento delle risorse (overshoot), deforestazione, danni ambientali iatrogeni (pensiamo all’aumento della diffusione dei batteri resistenti agli antibiotici). Portiamo avanti forme intensive di agricoltura e di allevamento che spingono al massimo la produzione sfruttando le risorse ambientali e creando un surplus di beni che finisce per la maggior parte in pattumiera, aumentando il circuito vizioso della gestione dei rifiuti e delle politiche di controllo comunitarie che creano danni economici rilevanti ai produttori… Stiamo decisamente soffocando e distruggendo l’unico pianeta sul quale (al momento, almeno) ci è possibile vivere. Dire che stiamo sputando nel piatto in cui mangiamo è assolutamente eufemistico.
Il quadro diventa ancora più tetro se aggiungiamo all’elenco i problemi più specificamente umani che caratterizzano questo preciso momento storico: aumento del divario tra persone ricche e povere, tra i paesi che vivono nell’opulenza e i paesi sfruttati dai primi; incremento delle malattie da sovralimentazione, tecnosedentarietà e da danni iatrogeni, da una parte, e problemi da fame e malnutrizione dall’altra; esasperazione dell’ottica individualista che ci rende sempre più incapaci di empatia e ci spinge sempre più verso il vivacchiare a danno degli altri… Non ci stiamo disumanizzando: lo abbiamo già fatto! Ci siamo allontanati dalla Natura che ci circonda e dalla nostra stessa natura di esseri sociali, incapaci di sopravvivere senza una rete (umana) di protezione. E allora che possiamo fare? Dobbiamo lasciarci trascinare dalla corrente, pensando che tanto comunque da una parte si dovrà arrivare? Aspettando che qualcuno (i nostri governanti o un salvatore super partes) venga a salvarci da questa condizione misera (extra-terreste portami via…)?
Se ci aspettiamo che la salvezza arrivi dalla realizzazione dei progetti legati al green deal, siamo già belli che dannati. Cosa possiamo prevedere, al di là del blocco delle auto diesel (che costringerà tutti a comprare una nuova auto, con tutto ciò che comporta a livello di spinta ulteriore alla produzione, allo sfruttamento di risorse, al trasporto di materiali, semilavorati e prodotti finiti, ecc.), della transizione verso l’elettrico (ma l’elettricità si produce ancora con il carbone o il gasolio, o con le centrali nucleari, a meno che non sia rinnovabile, nel qual caso deturpa le aree ancora incontaminate – e semmai protette – del nostro Paese creando seri danni alla fauna selvatica) o verso i biocarburanti (per la produzione dei quali vengono occupate sconfinate distese di terra, usate per coltivare le materie prime vegetali, quali colza – tipicamente OGM e che richiede grandi quantità di antiparassitari e fertilizzanti chimici – o palma da olio), della spinta verso il biologico (che ormai di fatto si traduce in una agricoltura che fa uso di prodotti fitosanitari diversi ma che sempre intensiva rimane)?
Le microcomunità: uno strumento per realizzare praticamente il cambiamento
Per realizzare davvero il cambiamento, quello tanto atteso e tanto propagandato ma senza che si realizzi nei fatti, rimane solo la spinta dal basso, un movimento “grassroot” per dirla alla americana maniera. Probabilmente, la possibilità più “naturalmente sostenibile” è quella che prevede la realizzazione di micro-comunità autosufficienti e collegate in rete, ossia di gruppi (non necessariamente numerosi: anche 4-10 persone possono bastare) che tendano a produrre internamente ciò di cui abbisognano, almeno per quanto riguarda gli ambiti essenziali: alimentazione, cura della persona, salute psicofisica… Nel contesto (per quanto limitato) della microcomunità il km 0 “scompare” perché diventa la regola; si elimina alla radice il problema delle produzioni intensive (agricola e zootecnica), con tutto vantaggio per l’ambiente e la vita animale; viene prodotto solo quello che serve, risolvendo a monte i problemi legati al surplus produttivo, tra cui la creazione di quantità immani di rifiuti, la perdita economica dei produttori dovuta alle catene lunghe di distribuzione e alle politiche “comunitarie” di produzione e l’inquinamento per il trasporto dei beni; si riduce drasticamente il consumo energetico.
Ogni micro-comunità diventa un sistema semplice che può facilmente autorganizzarsi, autoassegnandosi eventualmente obiettivi specifici. Come, ad esempio,
- specializzarsi negli ambiti di produzione o di fornitura di servizi (es., prodotti agricoli o trasformati, piante officinali, cosmetici naturali, produzione tessile o attività tintoria, specifici servizi alla persona o alla comunità);
- dedicarsi alla realizzazione di progetti volti al recupero o alla salvaguardia ambientale (ad esempio, adottando pratiche di permacultura, agricoltura rigenerativa, riforestazione, fitodepurazione);
- diventare un luogo di elezione per poter recuperare il senso dei rapporti umani, in un’ottica di collaborazione fattiva ed efficace, anche attraverso proposte culturali, formative ed educative alternative aperte a persone esterne alla comunità (vedi i punti successivi);
- adottare in tutta autonomia (pur preservando la libertà di scelta personale) specifici stili di vita (es., privilegiando la cura della persona con rimedi e/o cosmetici naturali, preferendo l’uso di case comuni o piuttosto di appartamenti/abitazioni indipendenti);
- dedicarsi all’educazione dei piccoli, con la realizzazione di scuole nel bosco, organizzazione di didattica all’aperto e attività alternative, eventualmente aperte anche a chi non è parte della comunità;
- proporre percorsi di formazione per gli adulti, ad esempio attivando corsi in merito alle attività specifiche della comunità o ad ambiti di interesse particolare (medicina naturale, erboristeria, pratiche di benessere, dinamiche di conduzione dei gruppi, attività culturali e/o produttive, …)
- dedicarsi all’autoproduzione culturale (musica, arte, letteratura, teatro, danza, spettacolo, giocoleria, …), per ritrovare la cultura del bello e sviluppare una identità culturale di gruppo.
Le relazioni delle microcomunità con l’esterno
È importante che tali comunità siano messe in rete tra loro (anche, ad esempio, tramite l’organizzazione di fiere), in modo tale da consentire a ciascuna di attingere alle ricchezze di tutte le altre, favorendo la creazione di una economia circolare che possa portare ad un sostentamento economico reciproco. Fondamentale è anche la relazione con l’esterno, cioè con le persone non facenti parte attiva di una specifica comunità. I beni e i servizi prodotti dai membri “interni” potrebbero essere venduti (tramite gruppi di acquisto o ordinarie relazioni commerciali) agli “esterni”, permettendo a questi ultimi di godere dei vantaggi della produzione comunitaria, piccola e attenta alla qualità e mettendo in moto meccanismi economici virtuosi volti a salvaguardare l’economia territoriale, la salute e il benessere di tutti i partecipanti.
Sarebbe auspicabile un’organizzazione a cerchi concentrici: attorno a un nucleo costituito da coloro i quali si dedicano specificamente alla produzione di beni e dei servizi potrebbe essere posizionato il “cerchio” delle persone facenti ancora parte attiva della comunità pur senza essere coinvolte nelle attività strettamente produttive. Attorno a questo, potrebbe collocarsi il cerchio degli “esterni” diretti (ovvero direttamente in relazione di conoscenza con i membri) o indiretti, ossia di tutte le persone che non fanno parte della comunità ma che possono sempre partecipare, semmai in maniera discontinua o specificamente agli eventi e ai momenti pubblici. La maggior parte delle professioni e dei mestieri oggi esistenti (tranne al più quelli legati alle catene di produzione e di vendita all’ingrosso) può continuare ad essere esercitata nell’ambito della comunità, a favore dei membri o per gli esterni. Nel contempo, si creano altre importanti opportunità legate alla produzione in loco.
Conclusioni
È immaginabile che, attraverso un’irradiazione concentrica di saperi, sapori e buone pratiche dalle “isole auto-organizzate” ai piccoli e medi centri in crisi d’identità che costituiscono l’ossatura dell’Italia (va probabilmente valutato a parte il caso delle metropoli), le microcomunità possano svolgere un ruolo di rivitalizzazione (economica, politica, ecologica, socioculturale) dei territori, segnatamente delle aree interne, e di ripensamento di una modalità di esistenza oggi dominata prevalentemente da logiche di consumo e di “insensatezza”. Le possibilità, anche politiche, di questa rete di “microcomunità allargate” sono tutte da esplorare. Senza contare le possibilità di resistenza e “resilienza” (per usare un termine abusato fino alla nausea) di territori così organizzati di fronte alla “annunciata” stagione delle pandemie, che rende urgente un ripensamento delle modalità di abitare e “resistere” ai mali che l’uomo sta generando.
Pierluigi Campidoglio