La triste ricetta di Fuksas: smart-working per ripopolare i paesi. «Ipocrita dire che dobbiamo tornare nei paesi ora che ci stiamo cacando sotto. Non si può sostituire la vita reale con un portatile», risponde “Irpinia Paranoica“. Tornare a piccoli borghi e campagne avrà senso solo se segnerà una riscossa dell’economia reale rispetto al castello di carte del business elettronico e della terziarizzazione digitale
Tempo fa le campagne vennero abbandonate per cercare fortuna nei centri urbani, dove si trovavano il lavoro e i servizi ritenuti imprescindibili alla vita. Con deruralizzazione e inurbamento le città sono diventate sempre più affollate: hanno aggredito le campagne circostanti con quartieri residenziali spesso privi di ogni coerenza urbanistica, pieni solo di cemento, e hanno ricoperto un ruolo fondamentale nell’affermazione di una società votata al consumo e al capitalismo. Ma negli ultimi tempi è diventata concepibile una possibile inversione di tendenza.
Una nuova consapevolezza verde, votata alla riscoperta della natura e alla rivalutazione dell’ambiente sta modificato stili di vita e abiti mentali, facendo percepire tra piccoli centri e campagne una vita più sostenibile, contro il caos e lo smog delle città. Da questo punto di vista l’emergenza Covid, con gli immancabili vagheggiamenti bucolici da lockdown decameroniano, potrebbe segnare un punto di svolta. Le restrizioni che ci hanno confinati in casa hanno mostrato con evidenza massima le debolezze degli spazi urbani e la claustrofobicità di una vita ristretta in quartieri di solo cemento, portando tante persone a volersene allontanare. Lasciare i piccoli limitati appartamenti, per spostarsi negli spazi e nei tempi dilatati di contesti più naturali.
Secondo un’indagine della rivista “Ville e Casali”, tra febbraio e aprile le richieste di casali in campagna alle principali agenzie italiane sarebbero effettivamente aumentate del 20%. I prezzi non elevati e la voglia di libertà hanno quindi modificato le necessità di chi ha sempre preferito un appartamentino in città. Anche la possibilità di lavorare in smart working ha dato a molti maggiore libertà “domiciliare” (almeno temporaneamente), senza dover badare alla vicinanza nel raggiungere il posto di lavoro. Altro dato importate è il numero di giovani under 35 che stanno cercando un nuovo futuro nella coltivazione della terra. Secondo Coldiretti sono oltre 56mila i giovani alla guida di imprese agricole, con un aumento del 12% negli ultimi cinque anni: un ritorno alla campagna che si prospetta come ricerca di una nuova possibilità occupazionale in temi di diffusa disoccupazione, ma anche come rinnovato interesse per la questione ambientale.
In quest’ottica, nel medio-lungo periodo anche i piccoli paesi potrebbero registrare flussi significativi di ripopolamento, con possibilità di rinascita per quei borghi di provincia per lo più disabitati ma in grado di offrire un modo di vivere più lento, più sostenibile e meno massificato. Anche il celebre architetto Massimiliano Fuksas si è espresso sul tema intervistato da Huffington Post: «Il coronavirus ci ha fatto scoprire il valore del vivere in piccoli centri. Questo anche in virtù del fatto che l’Italia sta cominciando a digitalizzarsi […] Ripopolare i paesi dov’è più facile vivere perché c’è un senso di comunità più forte rispetto alla città. Con tutte le difficoltà economiche che ci possono essere, la provincia ha una capacità di soluzione superiore a quella della città, dove ogni problema diventa un macigno, ogni aspetto burocratico diventa insolubile».
Non concordano gli animatori della seguitissima pagina “Irpinia Paranoica”, che trae ispirazione proprio dall’anima dadaista dei piccoli paesi dell’entroterra campano. «Credo sia una moda del momento – spiega Luigi Capone, uno degli animatori della pagina satirica – dire che bisogna tornare in campagna e nei paesi. È molto ipocrita dire che dobbiamo tornare nei paesi solo ora che ci stiamo cacando sotto. Se l’avessero detto prima sarebbero stati più degni di rispetto. In ogni caso i paesi sono quella parte di Italia dove c’è sempre meno lavoro e non si può ridurre tutto a smart working, non è possibile sostituire tutta la vita reale con un portatile». E in effetti un ritorno ai piccoli borghi e alla campagna acquisterebbe pieno senso solo se in grado di sollecitare una riscossa dell’economia reale rispetto al castello di carte del business elettronico e della terziarizzazione digitale (al netto della follia governativa di puntare con forza sullo smart working senza interrogarsi minimamente su certe ricadute negative psicologiche, relazionali, sociali e persino fisiche di una vita rintanati in casa, senza nemmeno uscire per cambiare scrivania).
Bisogna notare, inoltre, che la tendenza a tornare in campagna non pare riguardare significativamente i piccoli paesi: la maggior parte dei cittadini in fuga dal centro preferiscono avere più spazio senza allontanarsi troppo dalla città. Tre agenzie immobiliari di Benevento, ad esempio, ci hanno confermato l’aumento di richieste per affitti e vendite di immobili situati nelle contrade a pochi chilometri dalla città. «Molte persone che ci avevano contattati per affittare un appartamento in città, in centro – spiega l’agente Pierluigi Iadanza dell’omonima agenzia immobiliare – ci dicono adesso che gli farebbe invece piacere prendere una villetta nella immediata periferia della città. La casetta nel “paese sperduto” non è particolarmente gettonata; certo richiama l’attenzione, però quando si pensa alle distanze, ad una eventuale ristrutturazione, all’isolamento, le persone diventano più restie. Sono tanti, inoltre, i proprietari di appartamenti in città che vorrebbero vendere la loro proprietà per spostarsi in una casa più ampia, con giardino e spazio esterno, proprio perché stanchi degli spazi urbani limitati». E questo vale non solo per chi è interessato a comprare ma anche per chi vuole affittare: l’agente Cesareo del gruppo “CasaRe” conferma che nel post Covid sono aumentate del 10% le richieste di affitto per i mesi estivi per le villette nelle contrade rurali a margine della città.
Non è diversa la situazione in Irpinia. spiega Floriana dell’agenzia “Capital House” che i cittadini avellinesi sentono l’esigenza di abbandonare gli appartamenti a favore di villette con spazio esterno, come giardino o terrazzo, ma che solo pochi meditano di trasferirsi nei paesi. Anzi, molti giovani abbandonano le grandi proprietà ereditate dalla famiglia per comprare una villetta più piccola e meno isolata. «Si può dire che le persone cerchino lo spazio ma non l’isolamento – continua Floriana – cercano case comode con dei piccoli spazi, leggermente decentrati, perché sono più tranquilli e c’è più privacy però non completamente isolati». Insomma, la quarantena ha modificato molto la vita degli italiani, che hanno capito la limitatezza degli agglomerati urbani, ma la strada per l’emancipazione da questi ultimi sembra essere ancora lunga. Anche perché tornare alla ruralità deve significare soprattutto ricostituire comunità forti e intrecciate tra loro per ottenere nuove forme di rappresentanza e resistenza, non certo isolarsi in monadi solitarie facilmente attaccabili, per la gioia di apparati e multinazionali.
E mentre Fuksas (peraltro invitato agli Stati Generali dell’Economia a porte chiuse voluti da Conte) sostiene la necessità impellente di cablare grandi aree, per la gioia di Colao e dell’incubo 5G, è forse il caso di rileggere il gigante dell’agricoltura naturale Masanobu Fukuoka, laddove spiegò che «con una distanza minima di 100 metri tra le case e 1.000 metri quadrati di podere naturale potremmo riuscire a ottenere l’autosufficienza alimentare di ogni famiglia, insieme alla rivegetazione della terra». Altro che smart-working e inferno di cobalto.
Ylenia Giorgione, Alessandro Paolo Lombardo